La Svizzera ha firmato l’Accordo di libero scambio con la Comunità economica europea (CEE) il 22 luglio 1972, definito da alcuni commentatori “pietra miliare”. Il centro di ricerca Dodis (Documenti Diplomatici Svizzeri) ricorda il 50° anniversario dell’evento e sottolinea che la questione istituzionale era già di attualità allora.
Primo passo
“L’orizzonte per un primo allargamento della CEE è diventato chiaro nel 1969 con la revoca del veto della Francia all’adesione britannica”, spiega in un dossier speciale pubblicato oggi Sacha Zala, direttore del centro. Bruxelles avvia colloqui per stabilire legami speciali con gli allora “non candidati” alla CEE, ovvero gli Stati AELS (Austria, Finlandia, Islanda, Portogallo, Svezia e Svizzera).
Obiettivo
L’obiettivo è evitare la frammentazione economica dell’Europa occidentale, ma i negoziatori si muovono in acque sconosciute, afferma Dodis. Da parte svizzera, si intravede una “gamma di possibili soluzioni”, da un “risultato prossimo all’adesione” a un “trattato commerciale ordinario”. Il capo negoziatore svizzero, Paul Jolles, direttore della divisione del commercio del Dipartimento federale dell’economia, riassume così il compito che lo attende: “il problema più difficile sarà senza dubbio l’organizzazione della partecipazione istituzionale della Svizzera al processo di integrazione”. Cinquant’anni dopo, questa analisi è ancora attuale, osserva Dodis.
Nessuna integrazione politica
Il 22 luglio 1972, il consigliere federale radicale Ernst Brugger firma un accordo “che non prevede alcuna partecipazione all’integrazione politica dell’Europa”. Tuttavia, l’accordo esenta oltre il 90% delle esportazioni svizzere verso la CEE dai dazi doganali e stabilisce regole di concorrenza. La Svizzera, per esercitare pressione sulla CEE durante i negoziati, ha fatto ricorso all’argomento di un possibile rifiuto in votazione popolare, spiega Dodis. Il Consiglio federale ha sottoposto l’accordo di libero scambio a referendum obbligatorio, sostenendo che avrebbe rafforzato la cooperazione europea a lungo termine. Uno “sviluppo irreversibile”, secondo il consigliere federale socialista Hans-Peter Tschudi.
“Ciò che non si deve dire”
Da quel voto in poi, le decisioni sulla politica europea sono sempre più sottoposte al sovrano. Il Consiglio federale rafforza la sua politica di comunicazione, non per scopi propagandistici, ma per ragioni “didattiche”, si spiega. Il titolo di uno degli opuscoli dell’Ufficio per l’Integrazione, l’organismo incaricato delle relazioni con Bruxelles, è a dir poco significativo, rivela Dodis: “Cosa non si deve dire nell’informazione alla popolazione sull’accordo Svizzera-CE”.
L’approvazione popolare
Il 3 dicembre 1972, il popolo e i cantoni approvano l’accordo con il 72,5% di voti favorevoli. “Da allora, la politica europea del Consiglio federale non ha mai più ricevuto una tale legittimità”, afferma Zala. Il popolo ha bloccato un’ulteriore integrazione della Svizzera allo Spazio economico europeo (SEE) nel dicembre 1992. Ha poi sostenuto la via bilaterale in diverse occasioni. Il progetto di accordo quadro istituzionale è stato abbandonato lo scorso anno. Da allora, le discussioni con Bruxelles sono riprese, ma senza alcun riavvicinamento sulla famosa questione istituzionale.
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