Calcio
Razzismo negli stadi, il sociologo Pippo Russo: "Le società hanno timore ad agire"
Redazione
un anno fa
Dopo gli ultimi episodi di razzismo nel mondo dello sport, il sociologo e giornalista Pippo Russo è intervenuto a Ticinonews Sport per parlare del problema e delle possibili soluzioni,.

Dopo gli episodi di razzismo accaduti nella partita di Serie A tra Udinese e Milan al portiere Mike Maignan, il sociologo e giornalista Pippo Russo è intervenuto a Ticinonews Sport dando una chiara panoramica di ciò che è successo e delle dinamiche che portano a questi gesti. Nella fattispecie, alcuni individui della curva dell’Udinese hanno indirizzato nei confronti del portiere del Milan Mike Maignan versi che richiamano le urla delle scimmie e insulti sul suo colore della pelle. L’estremo difensore rossonero ha poi deciso di rientrare negli spogliatoi con la conseguente sospensione della partita decisa dall’arbitro.

La situazione è stata gestita nel modo corretto sia dall’arbitro, sia da Mike Maignan che è stato molto calmo durante e dopo l’episodio?  

"Maignan è stato esemplare, perché certe cose non bisogna mai lasciarle correre. Bisogna prendersi non soltanto il diritto di reagire, ma il dovere di reagire. Il diritto sta nel fatto che ci si sente lesi e allora si vuole cercare un riscatto o un risarcimento. Il dovere è quello di non far passare certi atteggiamenti. Se cominciano a essere le vittime a lasciar passare, finiscono ad essere i primi complici. Anche l’arbitro ha fatto bene il suo dovere. Non aveva colto immediatamente gli insulti. È stato necessario che gli venissero segnalati dal calciatore. La cosa che purtroppo rammarica è che se non sono i giocatori a denunciare questi abusi, difficilmente si muovono gli altri soggetti, men che meno le società".

Se non succede qualcosa di grave non se ne parla, è così?

"Assolutamente no. Il razzismo negli stadi italiani è una cosa molto diffusa. È diffusa anche negli stadi del resto d’Europa, ma la differenza è che altrove si ha una repentina reazione da parte delle autorità. In Francia si è cominciato a far caso non soltanto ai cori razzisti, ma anche ai cori omofobi. Si comincia ad allargare il raggio dell’attenzione nei confronti dei diversi tipi di comportamento intollerante. In Italia si continua ad attivare questa situazione ciclica per cui avviene l’episodio clamoroso, ci si indigna, si reclamano le grandi punizioni, poi però si attiva il circuito della minimizzazione. Le società reclamano in seguito di non dover essere vittimizzate per il comportamento di pochi imbecilli. Tutto quanto viene poi ammortizzato dal passare dei giorni in attesa che esploda un altro caso clamoroso".

Che cosa si può fare per eliminare questi episodi?

"Intanto bisognerebbe punire in modo esemplare gli autori del gesto. Questo purtroppo non sempre succede. Finisce sempre che le sanzioni sono abbastanza ridotte in termini penali. In termini sportivi bisognerebbe metterli al bando dagli stadi: avere la forza di adottare un provvedimento del genere. Poi non sono un granché d’accordo con la posizione del presidente della FIFA Infantino. Lui reclamava la comminazione della sconfitta a tavolino immediata per le società in cui i tifosi si rendono protagonisti di atti di razzismo. Io credo che in casi del genere si darebbe un’arma formidabile di pressione e di ricatto di alcuni gruppi del radicalismo da stadio sulle società, che finirebbero per rimare sotto scacco e di accettare compromessi che non andrebbero accettati".

In Europa il tifo è più radicato nella cultura, mentre in Nordamerica l’evento sportivo è uno show. Come mai ci sono queste differenze? 

"Il discorso è complesso e la risposta richiederebbe un’analisi a più livelli. Intanto per quanto riguarda il paragone tra il caso europeo e quello nordamericano sono realtà completamene diverse. Negli Stati Uniti il club sportivo non è espressione della comunità. È una franchigia, un titolo personale di un privato o di un gruppo di privati che poi molto spesso decidono di impiantare il club in un territorio. Infatti, abbiamo molto spesso lo spostamento delle franchigie. Questo fa sì che il club sportivo è una sorta di azienda che viene installata in un territorio per fare profitti e per poi essere rimossa o deterritorializzata. Nel caso europeo il calcio è espressione di comunità. Quindi incorpora delle storie e delle identità, così come fortissime inimicizie e campanilismi. Talvolta nati da una differenza territoriale maturati fuori dal mondo del calcio. Altre volte invece i dissidi sono maturati all’interno del mondo del calcio con storia secolare".

Come si fa a cambiare la mentalità di queste persone allo stadio? La soluzione è come in Inghilterra: tutti fuori?  

"Sicuramente la vena repressiva nei confronti di chi viola le regole e compie degli atti criminali come quello nel caso di Bove nel derby è una leva da adottare. Bisogna fare molto lavoro sull’educazione. Io aggiungo però che le società di calcio non devono essere in atteggiamento minimizzatorio, non devono essere complici dei loro tifosi. Devono essere le prime a provar a fare pulizia ed espellere a vita coloro che compiono determinati atteggiamenti. Dopodiché il lavoro educativo va fatto a lungo termine. Non possiamo chiedere soluzioni immediate, ma bisogna cominciare a fare questo lavoro. Speriamo che tra una decina d’anni ottimisticamente possa dare frutti".

Sono le telecamere che mancano alle società per identificare o c’è altro?

"Riuscire a identificare sarebbe un grande passo avanti. Temo che ci siano ancora legami troppo stretti fra alcune società di calcio e una parte del tifo. Così come c’è il timore che agire in un modo repressivo o meglio favorire la repressione da parte delle autorità dello Stato nei confronti di coloro che compiono certi gesti, sia avvertito dalle società come un'opzione non conveniente. La tifoseria viene vista come una grande clientela. La clientela va trattata grossomodo nella stessa maniera. Si ha qualche timore ad agire nel senso di escludere una parte di questa clientela".

Qual è il limite tra lo sfotto e l’insulto?

"Tutto ciò che è razzismo, tutto ciò che è disprezzo, tutto ciò disumanizza l’avversario e lo rende al di sotto dei nostri simili è qualcosa di odioso e che va represso. È ovvio che la storia del calcio è fatta di un corredo simbolico di inimicizie ed è anche fondato sulle specificità territoriali e su quelli che sono i difetti dal punto di vista del retaggio culturale dell’avversario. Mi rendo conto che al giorno d’oggi certi insulti da stadio dei quali un tempo ridevamo, oggi rischiano di essere catalogati come intolleranza o come discriminazione territoriale. Dobbiamo fare uno sforzo per eliminare completamente ogni forma di discriminazione dai nostri stadi e correre il rischio di eccessi in senso opposto".

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