
Un’opera per parlare delle proprie battaglie, inclusa quella che sta combattendo contro la malattia. Stiamo parlando del libro “Verità irriverenti, riflessioni di un magistrato sotto scorta” dell’ex procuratore generale e già consigliere agli Stati Dick Marty, presentato ieri sera al Lac di Lugano. Ticinonews ha intervistato l’autore.
Tre anni fa riceveva una telefonata in cui le hanno detto che la sua vita era in pericolo, un'esperienza che ora ha deciso di raccontare in un libro. Ma è solo questa che l'ha spinta a scrivere o l’opera nasce anche da altro?
“È una reazione ad una forte emozione che concerne direttamente la mia persona. Nel senso, mi si dice che devo far fronte questa volta a una sfida proveniente da un nemico interno, tra i più temibili che ci siano. In tutti questi casi la scrittura per me è stata anche una sorta di auto terapia, ma mi ha anche dato l'occasione di riflettere, e quando si deve scrivere ed esprimere dei concetti, ecco che la riflessione va affinata e approfondita. Dunque, descrivo l'inchiesta negata e in generale il rapporto tra potere e verità”.
Come ha vissuto questi anni sotto scorta?
“Se mi chiede se ho avuto paura le dico di no, né io né mia moglie, perché c'era un dispositivo tale che non c'era veramente motivo di aver paura. E poi, con questo non voglio dire di essere un ardito, un eroe, però se fossi stato pauroso tante cose nella mia vita non le avrei fatte. Ecco, quello che mi ha roso e veramente mangiato dall'interno è l'inattività, le mezze verità che mi sono state sciorinate dagli inquirenti, mentre la mia riconoscenza va agli agenti di protezione, i quali non solo sono stati molto professionali, ma anche estremamente preziosi dal punto di vista umano”.
Dal suo punto di vista come sta affrontando la Svizzera questo grande momento di cambiamenti in tutto il mondo?
“Oggi c'è questo sud globale che si sveglia. Gli Stati Uniti si stanno indebolendo e quando questo avviene tutto l'occidente trema. Dunque credo che la Svizzera, la quale ha sempre avuto un ruolo particolare con la sua neutralità e attività di mediatrice, potrebbe e dovrebbe giocare un ruolo importante. La politica svizzera però è sempre stata un po' in ritardo; pensiamo ai beni ebraici, al segreto bancario, alle crisi di SwissAir e UBS, e recentemente a quella del credito svizzero. Per tutte queste vicende c'erano dei segnali d’allarme già ben prima”.
È ancora possibile oggi per la Svizzera essere neutrale o comunque è un concetto che va ripensato?
“Io credo che la Svizzera avrebbe dovuto e deve, in parte lo ha fatto, ma forse con una voce afona, profilarsi nel diritto umanitario, nella proclamazione dei diritti fondamentali, della dignità, della protezione delle popolazioni civili. E questa voce nei conflitti oggi manca, anche nella situazione attuale in Medio Oriente ci si posiziona in modo opportunistico per non urtare una parte o l'altra, ma bisogna dire che la vita di un bambino, che sia israeliano o palestinese, ha lo stesso valore. Questi sono i concetti per i quali dobbiamo batterci”.
Si è parlato tanto anche di questo scollamento tra la società civile e la politica, che si vede anche quando si va a votare. Secondo lei che cosa si potrebbe fare per riavvicinare la gente alla politica?
“È abbastanza sconvolgente secondo me che per una democrazia che esige partecipazione, coinvolgimento, discussione e anche passione, alle ultime importanti elezioni nemmeno la metà della gente abbia votato. Se calcoliamo la società elvetica nel suo complesso, il partito di maggioranza rappresenta l'8% della popolazione. Questo a pensarci bene è sconvolgente, quando si parla di democrazia e di popolo sovrano”.
Se si guarda indietro però è soddisfatto di quanto ha ottenuto nella sua vita?
“Quando si arriva alla fine della propria vita ci si rende conto che le cose che contano sono poche e sono preziose. Io guardo indietro, anzi il presente: otto nipotini. E penso che la mia più grande riuscita sia quella”.