
C’era o no la consapevolezza tra gli imputati che le operazioni proposte da Pietro Paolo Mosconi erano illecite? E’la domanda attorno alla quale si è concentrato, questo pomeriggio, il dibattimento nel processo per le malversazioni a danno della ST Microelettronics. Ieri Mosconi, ex numero due della multinazionale, ha chiamato in correità l’avvocato Aldo Ferrini il quale ha fermamente respinto ogni addebito, così come gli altri due accusati: Marino Di Pietro e Francesco Doninelli.
Ma torniamo alla ricostruzione dei fatti. I primi contatti documentati tra Mosconi e il Credit Suisse risalgono al 20 ottobre del 1998 al quale ne seguiranno altri tra i responsabili della filiale luganese della banca e Mosconi, introdotto da Aldo Ferrini, riconosciuto come il legale della STM a Lugano. L’ex numero due della STM, si presenta alla filiale dell’ istituto di credito di Lugano, con credenziali molto interessanti. E’il tesoriere di una multinazionale quotata in borsa e con una liquidità importante, circa 1.1 miliardi di dollari. Un cliente prestigioso che la banca non vuole farsi sfuggire.
Mosconi pone così una serie di condizioni per collaborare con il CS a nome della STM. Tra queste la necessità per la multinazionale di creare delle riserve discrete, o per dirla con termini più accessibili, delle riserve nere fuori bilancio. Le condizioni sono a loro volta sottoposte dai responsabili luganesi del CS ai vertici nazionali e al servizio giuridico ticinese per ottenere il nullaosta. Tra gli accordi presi tra STM e Credit Suisse, vi è la collaborazione della multinazionale con la sala cambi. Si decide così di operare sui forex, mercato dei cambi, per un volume complessivo di 400-600 milioni di dollari. Operazioni normali per una multinazionale. In particolare, per quanto riguarda i fondi “discreti”, si stabilisce il versamento delle cosiddette retrocessioni. Ovvero: la STM compra valuta, ad esempio dollari, dal Credit Suisse. Anziché pagare al prezzo normale, la banca opera una maggiorazione dei decimali che compongono il valore della valuta, i cosiddetti pips. In pratica STM anziché comprare al prezzo reale, comprava a prezzo maggiorato. Il valore aggiuntivo veniva poi ritornato a Mosconi, per conto della STM, che la registrava sui conti discreti o oscuri. L’operazione è lecita e usuale tra banche e clienti importanti. Anche perché con il versamento delle retrocessioni, la banca rinuncia a una parte dell’ utile sulle operazioni di cambio. Il problema che è che se i pips aggiunti al prezzo sono corretti, non dovrebbero generare retrocessioni stratosferiche. Nel caso di Mosconi invece, i decimali (pips) venivano maggiorati. Un aumento quasi impercettibile ma, se applicato sistematicamente su operazioni milionarie di compra-vendita di valuta, i guadagni sono milionari, soprattutto se calcolati nell’arco di circa sette anni.
Periodo nel quale Pietro Paolo Mosconi avrebbe incassato illecitamente oltre 28 milioni di franchi. “Ma a lei che è avvocato “non è suonata un camapanellino d’allarme sul fatto che qualcosa non tornava?” ha chiesto la giudice Agnese Balestra Bianchi rivolgendosi a Marino Di Pietro, imputato ed ex dirigente del Credit Suisse Trust di Lugano. “Per me le retrocessioni pagate erano corrette, secondo le regole del mercato. Non potevo immaginare che venivano aggiunti o tolti pips di quella portata sui cambi” ha risposto Di Pietro. Ed è sulla consapevolezza degli imputati su quello che stava accadendo, che nei prossimi giorni la Corte cercherà di fare chiarezza.
IC
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