Ticino
“Preferisco parlare di Respect Day”
Lara Sargenti
3 anni fa
Il medico cantonale Giorgio Merlani si racconta nel “giorno della libertà”, ripercorrendo questi due anni di pandemia: “Si è deciso di cambiare vita e di convivere con questa situazione. Il virus non sparirà da solo, ma il rischio è diventato tollerabile”

È entrato nelle nostre vite fin dai primi giorni della pandemia, diventando uno dei volti più noti durante i consueti punti stampa per un aggiornamento sul coronavirus. Ora, nella giornata del “Freedom Day”, o come preferisce chiamarlo lui “Respect Day”, il medico cantonale Giorgio Merlani si racconta a 360° gradi in una lunga intervista a Ticinonews, scendendo in dettagli anche personali su quello che ha vissuto in questi due anni e su cosa gli riserva il futuro.

Giorgio Merlani come vive questo giorno della libertà?
“Con sentimenti contrastanti. Da un lato c’è un segnale positivo, dall’altro c’è apprensione sul significato di questo giorno. Va bene ripartire, ma non significa perdere la testa e dimenticare tutto quello che è successo negli ultimi due anni”.

Se fosse stato al posto del Consiglio federale avrebbe optato per questa strada?
“Il tecnico non criticherà mai la scelta del politico. Il tecnico vede solo il suo campo: io guardo la salute pubblica e le conseguenze in ambito sanitario. Le decisioni le prenderei dunque in base a questi aspetti. Il Consiglio federale decide tenendo conto di diversi interessi, dai cittadini, all’economia, fino alla salute. Ora vedremo di gestire questa nuova situazione”.

Ci avete messo tanto ad abituarci all’uso della mascherina e ora tutto d’un tratto viene abolito, anche nei negozi. Fa un po’ strano...
“Una transizione più lenta sarebbe stata più facile da capire. Si può fare un paragone anche con il burka: quando viene tolto o non è più richiesto le donne continuano a indossarlo comunque. La mascherina è diventata parte di noi, dona un senso di protezione ed è un segnale di rispetto verso gli altri. È normale che restiamo un po’ spiazzati ora che non c’è più”.

Questa transizione sembra comunque essere rimasta in gran parte sulla carta. Tante persone tengono ancora la mascherina. Entra quindi in gioco la responsabilità individuale che per tanto tempo è stata indicata come soluzione...
“Credo sia una questione di abitudine, ci vorrà forse un po’ di tempo prima di poterla abbandonare. Il Consiglio federale ha puntato molto sulla responsabilità individuale, siamo andati avanti a lungo senza imporre nessuna misura a livello svizzero. In altri momenti la responsabilità individuale non è stata sufficiente in relazione alla crisi che stavamo vivendo e quindi è stato necessario imporre degli obblighi.

Con il “liberi tutti” l’intenzione può sembrare di far ammalare la popolazione?
“Direi di no. Se osserviamo i dati, tra Natale fino a oggi si sono ammalati oltre 50mila ticinesi (tra positivi confermati e le stime). Nel giro di poche settimane si è ammalato un quinto della popolazione. È vero che arriveremo a questa sorta di immunità di gregge, ma l’obiettivo non è quello. Lo scopo è capire che l’impatto è gestibile dal sistema sanitario e accettare che qualcuno si ammali e abbia un decorso grave. La volontà non è quella di immunizzare tramite un’infezione voluta. Se dovessero salire di nuovo i dati, è pacifico che la politica tirerà di nuovo il freno a mano”.

Qual è stato il periodo più difficile in questi due anni?
“È stato difficile soprattutto all’inizio, con tutte le incertezze con l’arrivo del virus. Poi anche la seconda ondata, sia per il fatto che la popolazione era quasi stupita del ritorno del virus e poi per la durata dell’ondata, dalla fine dell’autunno fin oltre l’inverno”.

C’è stato un momento in cui ha pensato “qui non ne usciamo più”?
“Non voglio lanciare brutti segnali, ma non dobbiamo aspettarci che ci sia un interruttore da qualche parte. Ora si è deciso di cambiare vita e di convivere con questa situazione. Ma il virus non sparirà da solo, così come non scompaiono gli incidenti d’auto o altre malattie. Fa parte della convivenza dell’essere mortale. Il rischio ora è diventato tollerabile, ma il coronavirus tornerà probabilmente, anche se non nella veste della prima o seconda ondata. Sarà qualcosa più simile all’influenza”.

La paura tuttavia è ancora presente. Può essere un aspetto positivo per uscire da questa situazione?
“La paura è un termine che non mi piace perché ha una connotazione negativa. Al posto di “Freedom Day” preferisco usare il termine “Respect Day”. Non bisogna avere paura dell’acqua, dell’altezza, della montagna, né del coronavirus. Bisogna avere rispetto e questo ci insegna a tenere la distanza, a fare attenzione, a usare barriere. La paura è qualcosa che ci logora e fa male, il rispetto è qualcosa di positivo che ci insegna a tenere la distanza, a stare sul lato sicuro di una crisi”.

A livello familiare come è stato vivere questi due anni e scindere la figura di medico, padre, marito?
“I miei figli mi danno del lei adesso...(ride). C’è stato molto lavoro e sono stato molto assente. Ma ho avuto la fortuna di avere moglie e figli presenti e hanno aiutato molto. A volte bisogna poter staccare e avere la normalità della casa. La prima settimana, quando la famiglia era in vacanza a carnevale, è stato qualcosa di alienante. Pensare di farlo per due anni sarebbe drammatico”.

Cosa le riserva il futuro una volta finita la pandemia?
“L’intenzione è di fare altro quando l’Oms dichiarerà la fine della pandemia. Per legge poi ho un anno di disdetta. Non me ne vado dunque domani, dopo il Freedom Day. Rimarrò ancora un po’. Su cosa farò dopo non lo so ancora. Ma non mi butterò in politica. Non è la mia via o modalità di funzionamento. Sono un tecnico che analizza i fatti e in base a questo cerco di proporre le soluzioni migliori”.

L’intervista integrale nel Tg di Ticinonews

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