
Feste lussuose, abiti firmati, champagne. È anche così, ostentando la ricchezza sui social, che le mafie affermano il loro potere. Chi fa parte di una cosca diventa, quindi, una sorta di influencer. “Così come influenzano il quartiere in cui vivono, influenzano anche il territorio virtuale”, afferma il professor Marcello Ravveduto, ospite all’Università della Svizzera italiana per una conferenza dell’Osservatorio ticinese sulla criminalità organizzata. E si influenza mostrando un modello vincente: “Se io sono ricco, sono bello e sono pienamente integrato nella società dei consumi, significa che sono un vincente”.
La normalizzazione della criminalità organizzata
Il fine ultimo è la legittimazione sociale. Ma la forza di questa narrazione è anche “il tentativo di non farsi distinguere”, prosegue Ravveduto. La narrazione deve dunque essere uguale a quella della moda, di motori, di barche e accessori esclusivi. In questo modo, si sta dicendo che la ricchezza mafiosa è uguale a quella di qualsiasi altra persona.
Come la mafia diventa glamour
In questo contesto si aggiungono i “mafiofili”, ovvero persone attratte dalla criminalità organizzata. Secondo il professor Ravveduto, “la maggior parte della propaganda della mentalità mafiosa viene dai non mafiosi”. Loro costruiscono video sui social in cui “si genera un’epica dove la mafia sembra diventare un oggetto glamour”. Una fetta di mondo digitale che si può combattere creando contenuti anti-mafia e di valore civile. Conclude Ravveduto: “Qui siamo di fronte alla spietata legge dell’algoritmo”.
