
L’endometriosi colpisce una donna su dieci, ma spesso è sconosciuta alle stesse donne. Per accendere i riflettori su questa patologia, l'EOC ha organizzato una serata mercoledì 29 novembre per discutere della cura e delle diagnosi di questa malattia. Ne abbiamo discusso con Cristian Polli, responsabile medico del centro endometriosi dell’EOC.
Partiamo da una domanda semplice. Può spiegarci cos'è l'endometriosi?
“È una malattia benigna che può colpire svariate donne e che provoca una diminuzione della qualità di vita, provocando dei dolori soprattutto durante il periodo del ciclo. Evolve con il tempo e con l'età. È subdola perché è difficile da diagnosticare e porta ad avere conseguenze, con dei dolori cronici ed eventualmente anche una diminuzione della fertilità qualora alcuni organi vengano ad essere toccati”.
È vero che molte donne ce l'hanno, ma se ne rendono conto solo molti anni dopo?
“L'identificazione della patologia è dettata da un sintomo di dolore, che è stato lungamente considerato come normale in un periodo di ciclo. Questo fa sì che l'interpretazione di quello che sia normale o meno sia difficile. È importante per la donna confrontarsi con la famiglia, nella fattispecie mamma e sorelle, per vedere se quello che risente è un equilibrio di qualcosa che viene considerato normale o meno. Poi esprimerlo ad uno specialista. Il riconoscimento del dolore, come detto, è difficile, ma qualora ci si ritrovi in una condizione in cui l’attività quotidiana, come il lavoro o la scuola, viene interrotta o l'utilizzo di medicamenti diventa quotidiano, ci si può domandare se ci sia una patologia”.
Che consiglio si può dare alle donne che hanno questo tipo di dolori? Quando bisogna allarmarsi?
“Il primo consiglio è di discuterne con uno specialista e di avere una valutazione sia dal punto di vista clinico che nella storia. I segnali di allarme sono i dolori che vanno a interrompere l'attività quotidiana, ma sono evolutivi: quello che sei mesi prima era accettabile, un anno dopo può non esserlo più e deve essere investigato, soprattutto nelle donne giovani”.
Diceva che la malattia può avere conseguenze anche sulla fertilità?
“Purtroppo sì. La malattia si manifesta come il ritrovamento di un tessuto in una localizzazione nella quale non dovrebbe essere. Questa localizzazione è molto piccola e sviluppandosi può arrivare a dare tre meccanismi: cambiando l'anatomia interna rende il congiungimento dei gameti difficili e può produrre sostanze che rendono l'ovulazione più difficile”.
Esistono delle cure?
“Sì, il messaggio deve essere positivo. Quello che posso dire è che si può curare, purtroppo non si può togliere completamente. È un meccanismo in cui una donna su dieci ha la possibilità di creare progressivamente ogni mese questa malattia. Se però è conosciuta e interrotta con determinati trattamenti (il più conosciuto è il trattamento ormonale sotto forma di pillola o trattamento specifico) la persona può equilibrarsi, contenerla e non avere come risultato un problema a lungo termine”.
Non se ne parla da tanti anni. Finalmente anche in Ticino esiste un centro specializzato, sono emersi molti casi?
“È ormai più o meno 20 anni che sto seguendo questa malattia, sia nella mia formazione che nell’istituzione di un centro, che è attivo sul territorio dal 2014. Stiamo parlando di un'attività quasi decennale. È vero che è un lavoro costante e minuzioso di informazione per raccogliere anche il riconoscimento dei colleghi sul territorio per concentrare la malattia, che normalmente è vista come benigna e presa a carico da tutti. Il centro dà l'opportunità di avere esperienza della presa a carico, ma anche il coinvolgimento di altri specialisti -come il fisioterapista, la terapista del dolore, il chirurgo addominale, l’urologo - che una persona da sola non può conoscere”.