Ticino
Abusi sessuali nella Chiesa, la testimonianza
Redazione
2 anni fa
Un docente della Supsi racconta le violenze subite sull’arco di 10 anni da parte di un sacrestano: “È ora di rompere il silenzio affinché altri possano uscire dalla catena della vergogna”

“Ho deciso di raccontarmi perché credo sia ora di rompere il silenzio e affinché altri, attraverso la parola e la testimonianza, possano uscire dalla catena della vergogna”. A parlare è un docente della Supsi, che tra i 7 e i 17 anni ha subito violenze da parte di un sacrestano. La sua storia l’ha raccontata durante un convegno organizzato dalla Fondazione per l’aiuto, il sostegno e la protezione dell’infanzia (ASPI). A margine dell’incontro, i colleghi di Ticinonews hanno raccolto la sua testimonianza.

Sergio, perché ha deciso di raccontarsi?
Ho deciso di raccontarmi perché credo sia ora di rompere il silenzio e attraverso la parola e la testimonianza altri possono uscire dalla catena della vergogna.

Per anni lei è stato solo, con sé stesso e con il suo dolore.
Sì. Sono rimasto solo perché avevo vergogna, sentivo colpa, mi sentivo sporco, inadeguato e sbagliato e quindi cercavo di dimenticare.

Non è riuscito mai a parlarne con i genitori.
Con i miei genitori non ne ho mai parlato, questo è un cruccio. Per tanti anni mi sono chiesto perché, non lo so. Ho avuto moltissima rabbia verso i miei genitori perché non si sono accorti. Ad una certa età ho cominciato a rendermi conto che non dovevo essere io a dirlo ai miei genitori ma dovevano essere loro ad accorgersi che non stavo bene.

Dopo 10 anni, gli abusi sono finiti, anche in malo modo.
C’è stata una reazione violenta, mi sono accanito contro questa persona, l’ho picchiata, e da quel momento lui ha smesso. Poi c’è stato il processo di maturazione interiore. Ci sono voluti tanti anni, per buona parte della mia vita, gli anni della maturità, ho cercato di dimenticare, è rimasto sepolto. È uscito da quando ho iniziato a lavorare con Miriam Caranzano nel 2006 alla Supsi.

Oggi lei direbbe di essere un uomo libero?
Sì, libero dal dolore di questa esperienza, assolutamente sì. Pronto anche ad aiutare altre persone.

Lei è riuscito a perdonare?
Adesso sì, ho impiegato tanti anni, una decina di anni, è stato un percorso di elaborazione perché il perdono è stato innanzitutto di me stesso. Gli altri erano già tutti morti, quando io ho iniziato questo processo sia l’abusante che i miei genitori erano morti. Perdonare non significa dimenticare, non significa far finta che non sia successo niente, né significa assolvere. Perdonare significa liberarsi dal risentimento, dal dolore causato da quella vicenda. È un perdonare le proprie emozioni spiacevoli, la propria sofferenza.

Lei adesso insegna, ha una moglie, dei figli e dei nipoti.
Da un lato mi sento molto bene, a mio agio, dall’altra rimango sempre in uno stato di allerta perché questa esperienza mi ha lasciato una sensazione di attivazione, per cui sono molto guardingo.

Lei riesce ancora a sorridere, è la cosa più bella di questa mattinata.
Assolutamente, me lo dico spesso. Al mattino mi alzo ed il primo gesto che faccio è sorridere, essere grato perché sono qui, sono vivo, e ho tante sorprese che mi attendono nella giornata.

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