Ticino
50 anni fa, il rogo in Val Colla e la svolta nella lotta agli incendi
Immagine archivio Consorzio Valle del Cassarate e Golfo di Lugano
Immagine archivio Consorzio Valle del Cassarate e Golfo di Lugano
Redazione
un anno fa
L’incendio del 1973 raccontato da chi lottò per domare le fiamme con l’ausilio dei pochi mezzi a disposizione in quegli anni.

Nel dicembre di 50 anni fa un gravissimo incendio devastò i boschi della Val Colla e della Capriasca. Si tratta del peggior evento boschivo documentato in Svizzera e che, nel male, rappresentò un punto di svolta nella lotta agli incendi. Martedì sera l’evento è stato ricordato dal Consorzio Valle del Cassarate e Golfo di Lugano. In questa occasione, Ticinonews ha potuto incontrare un ex pompiere, Tiziano Delorenzi, e un ex pilota, Reto Salzborn, intervenuti per domare le fiamme in quegli ultimi giorni del 1973. “Feci circa 50 voli”, ricorda Salzborn. “Il fumo era molto denso e in certi posti non osavamo neanche entrare, perché non si vedeva bene la conformazione del terreno. Fu un lavoro estremamente difficile”.

Gli interventi

L’azione dei militi per domare le fiamme si svolse senza elicotteri, “perché in quegli anni non erano ancora in servizio”, prosegue Salzborn. “C’era invece il Pilatus Porter, che prendeva 700 litri d’acqua e li lanciava a venti-trenta metri al massimo dal suolo”. Dopodiché, “doveva volare fino ad Agno, atterrare, aspettare che i pompieri riempissero i serbatoi e poi ripartire. Ogni 15-20 minuti arrivavano due velivoli con 1'400 litri d’acqua”. Anche l’azione via terra era tutt’altro che semplice. “Non avevamo mai visto niente di simile”, racconta Delorenzi. “Era come giocare a mosca cieca. Singoli gruppi partivano dotati di pile, ma non c’era collegamento tra le squadre, perché non disponevamo di ricetrasmittenti”. Inoltre, “c’era chi, come me, aveva esigenze lavorative. Io ero impiegato in comune e il sindaco, che era anche un forestale, mi aveva detto di rientrare, perché alla mattina la cancelleria doveva essere aperta”. Al pomeriggio, poi, “rientravo in servizio”.

La svolta

Fortunatamente, nella parte alta il rogo non poté passare il crinale del Monte Bar e si fermò da solo, mentre in basso venne contenuto dai pompieri. Quei giorni segnarono una svolta nella strategia di lotta agli incendi. “A inizio anni '80 venimmo dotati di radio e potemmo quindi mettere in atto un’organizzazione e anche una catena di comando, che ci permise di affrontare al meglio gli altri incendi nelle piantagioni, soprattutto a Corticiasca. Nessun altro rogo ha mai avuto una propagazione come quella con la quale venimmo confrontati allora”.

L’evento del 1973, come detto, fu fondamentale per comprendere che non si può pensare di contrastare i roghi senza un’organizzazione e degli attrezzi adeguati. Non solo: in un’ottica di prevenzione, anche la cura del territorio è fondamentale. “Ciò che è vegetazione diventa combustibile per il fuoco”, spiega Marco Conedera dell’Istituto federale di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio. Per fare un esempio, attualmente una delle concause per la bassa frequenza di incendi “è il fatto che non si possono più abbruciare gli scarti vegetali all’aperto, ma occorre portarli nelle piazze di compostaggio”. Anche l’introduzione di regole quali il divieto di accendere fuochi all’aperto in caso di pericolo di incendio ha giocato un ruolo importante.

Le sfide del futuro

Guardando ai prossimi obiettivi, lo scopo ultimo è evitare grossi incendi. “Uno dei maggiori problemi riguarda ciò che succede nell’area bruciata una volta che il bosco è stato rovinato dalle fiamme e non può più svolgere la funzione di protezione durante le precipitazioni intense”, prosegue Conedera. Quando non ci sono più chiome, infatti, “l’acqua scorre superficialmente e può causare alluvioni, frane, erosione, e c’è anche il rischio della caduta di sassi. Non è vero che una volta spento l’incendio il problema è risolto: in quel momento, per i forestali inizia il lavoro di prevenzione dei pericoli naturali”.

 

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