
Il viaggio intrapreso da Daniele Finzi Pasca nel mondo del teatro è giunto al suo quarantesimo anniversario. Si alza quindi un importante sipario per l’omonima Compagnia teatrale, che dal 1983 disegna un modo di vivere e di viaggiare insieme. Quarant’anni in cui i membri della Compagnia hanno avuto modo di crescere, allargarsi e incontrare figure chiave del mondo dello spettacolo. Un’attività che negli anni non ha mai perso la sua essenza, i suoi valori e la sua attrattività. Il quarantesimo anniversario ne è la conferma e abbiamo deciso di parlarne direttamente con il fondatore Daniele Finzi Pasca.
40 anni sono tanti: quali sono
le tue sensazioni per questo importante traguardo?
"Per me è una festa intima, è
bello ricapitolare con gli amici. Quarant’anni nel mondo del teatro, ma non
solo, hanno fatto sì che ora noi siamo riconosciuti come una compagnia teatrale
con una storia alle spalle e con alcuni membri presenti fin dall’inizio. Questi
quarant’anni di viaggio insieme per me si traducono in tanti ricordi, ma penso
in particolare alla persistenza: stare insieme tutto questo tempo significa che
c’è una vera e propria passione per quello che facciamo. Quello che stiamo preparando
per presentare i passati quattro decenni servirà anche per raccontare cosa
faremo nei prossimi dieci".
Sono previste celebrazioni particolari per l'anniversario?
"Sì, a Lugano ci sono tanti teatri
che ci accoglieranno per festeggiarci. In questi giorni riprenderemo uno spettacolo
molto particolare e a cui siamo davvero molto affezionati: Luna Park. In pieno periodo Covid avevamo
pensato - contrariamente ad altri che hanno deciso di sbarcare nel mondo del
video – a uno spettacolo immersivo, quasi in contraddizione rispetto a quanto
si poteva fare in quel momento. A Lugano questo spettacolo ha avuto un successo
strepitoso e quindi oggi lo stiamo rivisitando. Nei prossimi giorni lo porteremo al LAC. Ci sarà poi anche il libro di Viviana
Cangialosi sui nostri 40 anni, in cui è possibile vedere le fotografie di noi
agli inizi, per poi arrivare al presente. È un
libro carico di affetto per la nostra storia. Ci saranno inoltre delle mostre,
sempre al LAC, così come altre iniziative per permettere al pubblico ticinese
di abbracciarci".
Parlaci di questo Luna Park,
di cosa si tratta?
"Per prima cosa vorrei dire che il
nostro Luna Park è stato ripreso e copiato da un sacco di altre compagnie ed è
per questo che abbiamo deciso di riproporlo e di farlo rinascere dopo la
pandemia. Si tratta di uno spettacolo in cui, in sole 2h30, si concentra tutto
quello che facciamo. È un modo per viaggiare all’interno di una facciata del
mondo dello spettacolo, che lo spettatore non conosce: si entra quindi dalla
porta principale e si va dietro le quinte, con un tragitto in cui gli attori
raccontano una storia ad un pubblico che possiamo definire immaginario e in cui
non c’è una distanza fisica tra attori/attrici e pubblico. È un’esperienza
sensoriale molto particolare, come un giro di giostra. La prima volta c’erano addirittura
persone che si sono rimesse in fila per rivivere lo spettacolo, e per noi è
stato molto particolare assistere a tutto ciò. Luna Park è uno
spettacolo a cui sono molto affezionato, anche perché non assomiglia a nulla di
mai fatto prima alle nostre latitudini, e che ha, come detto, influenzato tanti
altri teatri come quello di San Paolo. È uno spettacolo all’insegna della
leggerezza, proprio come un Luna Park. Da lì il nome".

Quali sono le opere o i momenti di cui vai più fiero?
"Nella vita di un artista, così
come in quella di chiunque, ci sono dei momenti chiave. Anche la Compagnia ne
ha avuti, come ad esempio quegli incontri che ci hanno dato uno slancio
particolare. Collaborare, ad esempio, con il Cirque du Soleil o alla English
National Opera per dirigere un’opera lirica, che per me è un luogo davvero
magico, sono solo due esempi di esperienze di cui vado molto fiero. Da ragazzo
non mi sarei mai immaginato di essere invitato con gli onori del caso; sono quindi
tanti i momenti, tutti diversi gli uni dagli altri. Alla fine di ogni
spettacolo “Icaro”, capitava di fare incontri incredibili con persone che ho
scoperto poi essere artisti, poeti, politici. Non avrei mai immaginato di stare
nel mio camerino e dare la mano a persone che hanno lasciato un segno nella mia
vita. Con loro ho avuto occasione di parlare e riflettere sul futuro, così come
inventare opere insieme. Sono stati quindi davvero tanti i momenti che mi hanno
reso fiero".
C'è qualcosa invece che
faresti in modo diverso?
"Sì, in questo genere di attività c’è
sempre una lunga svalangata di “se”. Ci sono stati errori che alla fine si sono
rivelati buoni e che hanno portato al successo, ma succedeva in maniera
casuale. Ci sono quindi sbagli che fanno scoprire cose inattese. Ci è
successo con alcune soluzioni teatrali, certe innovazioni e scoperte
che abbiamo introdotto, ma erano sempre casuali. Ci sono poi volte in cui ci si
rendeva - e ci si rende tuttora - conto che si poteva fare meglio, che si
poteva dare un taglio diverso, più corto, eccetera. È un continuo
sbagliare e cercare di migliorarsi. “Potrei fare meglio” è una sorta di frase
fissa che abbiamo nel teatro. Fare le cose con leggerezza è il centro di tutto
però. Io ad esempio faccio fatica a visionare immagini o video di vecchi
spettacoli sullo schermo, preferisco andare direttamente a teatro a
rivederlo, per poi metterci la mano durante la notte e la mattina dopo.
Si vive con i “se”, ma è la bellezza di questo lavoro. Dopo 42 anni continuo a
sperare che lo spettacolo vada bene, è un continuo migliorarsi dove
necessario".
Com'è cambiato il teatro in
questi 40 anni?
"Si sono riaperti, ad esempio, dei
teatri che erano spariti quando ero giovane, ma ne sono stati aperti e
inventati anche di nuovi. Alle nostre latitudini c’è un panorama più eclettico,
quindi significa che c’è grande passione e ci sono idee molto interessanti
proposte dalle nuove generazioni. Il teatro è però fatto da una chimica molto costante:
si ha davanti un pubblico che puoi gestire, ci sono e ci saranno sempre persone
che hanno costantemente voglia di farsi raccontare storie, di esservi condotte
all’interno. C’è poi una materia umana che sono gli interpreti, gli attori, che
cercano di reinventare questo gioco, quello della rappresentazione della vita.
Questa è una cosa strana, perché la realtà scenica è più forte della realtà
stessa proprio perché i sogni sono più potenti della verità. Non a caso, il
dialogo più profondo con noi stessi avviene la notte, dove riviviamo ricordi
inventati o addirittura nascosti. Il teatro è intatto, cerca di migliorarsi,
torna indietro e osserva il passato. Da noi, parlando proprio della struttura,
questa ad oggi offre molto di più rispetto al passato: noi eravamo una giovanissima
compagnia, e di compagnie teatrali nella Svizzera italiana ce n’erano davvero
poche. Ora c’è invece un fermento molto grande e un continuo rinnovarsi. In
questo senso il fermento è maggiore, più importante".
Quali incontri in questi 40
anni sono stati i più significativi per te?
"Quelli con i miei compagni di
viaggio, ogni volta che ci incontriamo e decidiamo di lavorare insieme. Penso a
tutti quelli che fanno parte della compagnia, il cui nucleo è formato da
persone che da anni fanno ricerche e che mantengono viva la memoria della
compagnia. Con questi compagni di viaggio ci siamo trovati, e chi conosce il
teatro sa che sono legami molto forti, ma allo stesso tempo fragili, come una
storia d’amore che sembra impossibile che finisca ma improvvisamente poi
succede. Lo stare insieme da tanti anni e il percorrere insieme la strada con
sogni diversi, ma che poi si uniscono, fa sì che quando ti guardi indietro, ti
rendi conto della fortuna che hai avuto ad averle incontrate. Nel mio viaggio ho
conosciuto persone talmente particolari che mi sento fortunato. Con loro lavoro,
collaboro e danzo da anni, sono le persone fondamentali, le più importanti che
ho incontrato".
Cosa riservano i prossimi 40
anni a Finzi Pasca?
"Prima ho accennato ai prossimi dieci
anni e su questo posso aggiungere che la nostra voglia di continuare è intatta
e vogliamo continuare a lavorare allo stesso modo e con le stesse persone. Non
abbiamo dei piani, anche perché se li avessimo non andrebbero comunque come da
programma".

A un giovane talento ticinese
che vuole buttarsi nel teatro che consiglio puoi dare?
"Scappa! Vai lontano. Bisogna conoscere,
scoprire e uscire dal guscio, da una situazione di comodità oppure di
difficoltà. C’è sicuro un grande fermento, ma lavorare nel nostro settore è molto
difficile, già per noi. In base alla mia esperienza posso dire che partire ci
ha infatti permesso (a me e ai primi membri della compagnia) di lavorare e
conoscere personaggi importanti in giro per il mondo, facendo spesso fatica a
remare e andare avanti. Questo però ci ha forgiato, ora siamo indistruttibili:
oggi non ci ferma nessuno, e questo lo impari solo navigando per mare e vivendo
tempeste, stando con grandi equipaggi".
Cosa ti ha ispirato a dare
vita a un teatro che fa sognare?
"Io faccio spettacolo per un
gruppo molto ristretto di persone: naturalmente per la mia famiglia e per
alcuni amici del quartiere, sperando di vederli fieri di me e contenti di
quanto ho fatto. Quindi lo faccio per un ristrettissimo gruppo di persone, per
me sono solo loro il punto di riferimento. Se faccio un nuovo piatto sono loro
che devono essere felici, sorpresi e contenti. Quindi è quello il mio
riferimento".
Come riesci a mantenere questa
magia? È il teatro che alimenta la magia della tua vita, o è la magia della tua
vita ad alimentare il teatro?
"La vita è magica, surreale ed
estremamente dolorosa. Noi che la raccontiamo dobbiamo quindi farlo con molta delicatezza
e onestà, parola che rimanda a scelte alle quali uno è affezionato. Noi siamo
un teatro della luce e della leggerezza, ma con questo non voglio dire che
altri colleghi rappresentano il dramma come lo si vede nella vita con le sue
lacerazioni. Noi siamo un gruppo di artisti che riunisce sempre persone che
sanno che stiamo cercando di far rinascere, laddove possibile, la leggerezza,
che è un termine delicatissimo: può essere inteso come “frivolo”, ma in realtà
va inteso come un tipo di approccio usato, per esempio, quando si ha a che fare
con un bambino che ha subito violenze e quindi non è di aiuto farglielo notare
esplicitamente. Si tratta pertanto di cercare di trovare un senso a quanto gli
è capitato, anche se non è semplice e noi non abbiamo risposte. Noi clown
proviamo a rappresentare anche questi drammi, ma cercando di far meditare sulle
ferite senza farle sparire e senza far dimenticare che la vita è un dramma. Bisogna
saper raccontare le tragedie non tanto cercando di capirle, ma piuttosto cercando
di darle un senso".