
I sensori abitualmente utilizzati per i terremoti possono anche essere impiegati per rilevare più rapidamente le colate detritiche. Lo hanno scoperto i ricercatori del Politecnico di Zurigo (ETH) e dell’Istituto federale di ricerca sulla foresta, la neve e il paesaggio (WSL). Il dispositivo è già stato testato con successo in Vallese. I sentori attuali - telecamere, laser e dispositivi presenti nei letti dei torrenti - danno spesso l’allarme troppo tardi. In caso di colate detritiche - ossia una miscela di acqua, fango e sassi - resta dunque poco tempo per mettersi in salvo, ricorda l’ETH in un comunicato.
Il nuovo dispositivo messo a punto dal Politecnico e dal WSL ricorre ai sensori solitamente utilizzati per i terremoti. Questi percepiscono le vibrazioni del suolo causate dal flusso di detriti anche a diversi chilometri di distanza. Grazie al ricorso all’intelligenza artificiale, il sistema è in grado di fare la differenza tra vibrazioni emesse ad esempio da cantieri, mandrie di mucche e traffico ferroviario. Per “insegnare” l’algoritmo al computer, i ricercatori hanno inserito i dati di ventidue colate detritiche registrate nell’Illgraben, in Vallese.
Il nuovo sistema è stato quindi messo alla prova: le 13 colate detritiche - anche di scarsa rilevanza - verificatisi nel 2020 nell’Illgraben sono tutte state rilevate dal sistema con un anticipo di 20 minuti rispetto al dispositivo tradizionale. Non è inoltre stato generato alcun falso allarme. L’Illgraben è una grande conca rocciosa a sud-ovest di Susten (VS). È conosciuta per essere il più importante punto di formazione di colate detritiche della Svizzera e come tale offre un laboratorio naturale ideale, indica il professor Fabian Walter dell’ETH, citato nella nota.
La prossima tappa, spiega Walter, è verificare se l’algoritmo funziona anche in altri contesti. L’obiettivo finale è svilupparne un modello che non sia legato a un luogo specifico. “Vogliamo rilevare le frane e le colate detritiche il più rapidamente possibile per essere in grado di avvertire gli abitanti delle aree a rischio con un margine sufficiente”, afferma Malgorzata Chmiel, ricercatrice all’ETH e prima autrice dello studio pubblicato sulla rivista Geophysical Research Letters.
© Ticinonews.ch - Riproduzione riservata