Hockey
Daniele Grassi: "Un Ambrì così non si sognava nemmeno"
Redazione
6 mesi fa
Daniele Grassi si è raccontato ai microfoni di Ticinonews a 360 gradi. Il capitano dell'Ambrì-Piotta ha parlato della sua carriera hockeistica, dei suoi rapporti con Luca Cereda e del suo stile di gioco.

Dopo l'intervista a Calvin Thürkauf è il turno del capitano dell'altra squadra ticinese. Daniele Grassi, capitano dell'Ambrì-Piotta, si è raccontato ai microfoni di Ticinonews. Ha ripercorso il suo passato con il debutto in maglia biancoblù, i suoi anni in Svizzera interna fino al suo ritorno in Leventina. Ecco le sue parole:

Come e quando è nata questa storia d’amore con l’Ambrì-Piotta?

"Sono cresciuto in una famiglia biancoblù. Mio papà tifava Ambrì come i miei fratelli maggiori. È stato un percorso logico sin da subito".

Nella tua prima stagione completa in prima squadra è arrivato lo spareggio salvezza con il Langenthal. Debutto traumatico?

"Non penso, quando sei così giovane vivi le cose con più spensieratezza. Giocare in prima squadra ad un’età così giovane per me era un forte stimolo. L’ho vissuto inconsciamente; avevo l’opportunità di giocare e dare una mano all’Ambrì, per me non era un peso. Il rischio retrocessione? Sono momenti che ti insegnano tanto. Quando le cose sono facili, impari più lentamente".

Dopo qualche stagione all’Ambrì, hai deciso di andare a Kloten. Com’è maturata questa scelta?

"Era nella mia testa già da diverso tempo. Mi sarebbe piaciuto intraprendere un’esperienza oltralpe. All’inizio della mia carriera avevo un contratto di 4 anni con l’Ambrì-Piotta e una volta scaduto avevo voglia di cambiare aria. Mi si è presentata l’opportunità in estate: non è stato facile partire, ma se mi guardo indietro, è stata la scelta giusta".

Stagioni a Kloten da doppia faccia: prima l’annata con la doppia cifra di reti, poi la relegazione.

"È stata un’esperienza insolita. Quando ho firmato c'era la vecchia dirigenza, un team di canadesi aveva ripreso il club, e c’erano altre ambizioni. Hanno lasciato la società a fine stagione. Nel primo anno la situazione non era chiara; non sapevamo se si giocava o meno. Nonostante non avessimo la rosa più forte, vincere la coppa è stato qualcosa di bellissimo. Nella seconda stagione la squadra si è disunita, non c’erano tanti presupposti per continuare a fare bene. Durante la stagione molti giocatori hanno firmato altrove e purtroppo non siamo riusciti a restare in A. È stato il periodo più difficile della mia carriera. Da quell’esperienza ho potuto trarre diversi insegnamenti".

Con il Kloten, rispetto allo spareggio con il Langenthal, c’era una consapevolezza diversa?

"Era una situazione diversa. Ad Ambrì c’erano diversi giocatori che avevano fatto lo spareggio anche l’anno prima: si era più consapevoli. A Kloten nessun giocatore aveva avuto esperienze simili. Sono situazioni in cui la tensione è altissima: non giochi per vincere, ma giochi per non perdere".

Dopo il fallimento con il Kloten sei andato a Berna. Sei caduto in piedi?

"La mia intenzione era andare in una squadra che combatteva per il titolo. Era un periodo in cui il Berna dominava. Sono stato catapultato in un’altra realtà. All’inizio della Regular Season ho fatto fatica, la squadra aveva tanta qualità. Verso la fine della stagione mi sono adattato bene, poi la corsa al titolo durante i playoff è stata bellissima".

Dopo 4 anni in Svizzera Interna è arrivato il momento giusto per tornare ad Ambrì?

"La decisione era se rimanere qualche anno ancora in Svizzera tedesca o tornare ad Ambrì. Mi sono sempre trovato bene in Svizzera tedesca, ma ad Ambrì c’era un progetto interessante. Alla fine, la decisione è stata facile".

Dallo spareggio con il Langenthal, quanti passi avanti ha fatto l’Ambrì?

"Parecchi. Quando ho cominciato, la situazione in cui siamo ora, non si sognava nemmeno. Tutta la struttura societaria ha fatto passi avanti e la parte sportiva ne risente in positivo. Non siamo un ‘top club’ e mai lo saremo. La gente vede i passi avanti che ha fatto questa società. La pista è sempre piena, c’è un sostegno incredibile ed è qualcosa di veramente bello. Nei miei primi anni, non si sapeva quanto sarebbe ancora durato il mito dell’Ambrì. Vedere adesso che ci sono solide basi su cui si può costruire è qualcosa che mi rende orgoglioso. L’ambiente ha perso qualcosa? Personalmente preferivo la Valascia, quando faceva freddo e guardavi l’altra squadra riscaldarsi. La Gottardo Arena è stato però un passo obbligato. La gente lo sa e non si è staccata. Tutte le squadre hanno fatto passi avanti e non possiamo credere che siamo i primi della classe. Il mito dell’Ambrì è conosciuto in Svizzera e al di fuori dei nostri confini".

Che rapporto hai con Cereda? 

"Luca l’ho conosciuto negli juniores. Credo sia una persona che tiene molto a questo club e ci mette ogni energia per farlo progredire. Lo reputo molto intelligente, sa evolversi, sa trattare con le persone e questo al giorno d’oggi è fondamentale. Le persone sono alla base delle società e alla base della squadra e lui sa parlarci ed essere alla mano senza essere distaccato. Un grosso merito va a lui e a Paolo per quello che hanno fatto negli ultimi anni".

Questa stagione sei ancora fermo a 0 reti. Com’è cambiato il tuo ruolo negli anni? Ti pesa avere un ruolo più difensivo?

"Quando arrivi in National League ti adatti a tutti i ruoli che ti affidano. Una mia caratteristica è sempre stata quella di adattarmi ad ogni ruolo. Nella mia ultima stagione ad Ambrì non tutto sta andando per il meglio. Non sto esprimendo il mio miglior hockey e di conseguenza ho meno spazio. Questo però non è il mio focus, sono il capitano e devo far sì che la squadra vada bene. Non ho nessun problema ad accettare qualunque ruolo".

Quest’anno sei finito anche in sovrannumero. Da capitano fa più male? 

"Non mi è capitato spesso in carriera. Sicuramente non è qualcosa fa bene, però il bene della squadra viene al primo posto. Critiche sulle penalità? Io sono uno che sta lontano da quel che sono i media, quindi non sento le critiche. Mi piace stare tra la gente e conosco tante persone che seguono l’Ambrì: le critiche le sento in diretta. Abbiamo discusso tanto sul tema delle penalità, sto facendo dei passi avanti e si può ancora migliorare. Nel mio stile di gioco un certo numero di penalità possono starci, però ci vuole una via di mezzo".

Vittoria in Coppa Svizzera, il titolo con il Berna a e la vittoria in Coppa Spengler. Come situi questi tre eventi come momenti più belli della tua carriera? 

"In testa penso ci sia la vittoria in Coppa Spengler: è stato qualcosa di speciale. Siamo una società che non sempre ha vita facile. Ci sono persone che ci seguono e che danno l’anima per questi colori. Sul ghiaccio riesci a restituire dei momenti di felicità e questo ti fa sentire bene".

Il Lugano cosa è stato per te? Un avversario? Un nemico?

"Sì, un avversario. Forse più un nemico. Io arrivo dalla Valle Verzasca e quindi i luganesi sono quelli dal naso alto: penso sia la storia del nostro Cantone. Questa rivalità l'ho vissuta sin da bambino e il Lugano era sempre la squadra che volevi battere. Trovo sia una cosa bellissima non per il fatto di avere un nemico da uccidere, ma che ci sia una rivalità sportiva in un Cantone così piccolo. Il Lugano è quindi sì un nemico, ma anche qualcuno che ha aiutato a far crescere l'hockey in Ticino. Questa rivalità è qualcosa di bello da vivere. È un esempio di come la passione delle persone può spingere a grandi obiettivi".

Hai pensato al futuro?

"Vedremo. Lascio aperte entrambe le strade, sia quella nel mondo dell’hockey con dei corsi da allenatore, sia al di fuori del ghiaccio. Avere la fortuna di smettere e poter decidere quale strada prendere è la cosa più bella che c’è".

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