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Verdi di Lugano - Perché lo fanno?
Immagine Account Facebook Verdi Lugano
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Redazione
2 anni fa

Prima di dare dei brozzoni perditempo a chi in queste ore e negli ultimi 25 anni ha portato avanti un’autogestione di questo tipo a Lugano è il caso di chiedersi: perché lo fanno? Non per soldi e nemmeno per la fama. Non per un’opportunità di carriera e nemmeno per proteggersi. Rimanessero a casa, conducessero una vita “normale”, non passerebbero di certo guai giudiziari, non rischierebbero bruciature agli occhi da spray urticante o lividi da percosse e proiettili di gomma. Nessuno li descriverebbe come degli scarti della società, persone reiette che non vogliono seguire le regole del vivere corretto, quelle regole che in momenti come questi vengono proposte come scritte nella pietra ma che – in verità – nel corso degli anni e dei secoli sono cambiate tante volte anche proprio grazie (o a causa) di persone che, come loro, hanno dissentito. Senza il dissenso oggi le donne non voterebbero, i neri dovrebbero sedere in posti separati sui bus, non avremmo nemmeno quello che pare essere l’ultimo baluardo della democrazia, ciò che lo strapotere del capitale ci ha lasciato: il diritto di voto.

Ieri le persone legate all’autogestione del Molino sono rientrate in ciò che rimane degli spazi dell’ex-Macello, spazi che per anni sono stati la loro casa. Da lì per 20 anni hanno dissentito, non solo attraverso la cultura ma anche con un discorso politico. Hanno fatto politica con idee che di certo non sempre sono state quelle della maggioranza, non di rado nemmeno le nostre. Hanno accolto chi viveva ai margini e ascoltato anche i “pazzi”. Ogni decisione presa è passata dall’assemblea di chi c’era, alla ricerca di una maggioranza condivisa, un po’ come fa il Consiglio Federale quando si riunisce a porte chiuse. Hanno fatto cultura e politica. Una politica che nel suo agire o pensare dissente da un sistema globale, una politica che di certo non è facile da accettare. La reazione della Città è stata quella di rifiuto. Rifiuto del dialogo ma, ancora peggio, rifiuto nell’accettare che un dissenso possa esistere e faccia parte del corpo stesso della società. Perché il dissenso, se ammesso, può prendere forme incontrollate, può portare a idee diverse e impreviste. Può obbligarci a cambiare idee, piani e strategie. E così, per 20 anni si è tacciato di brozzoni e figli di papà perditempo ciò che dall’autogestione usciva. Quando poi quella maggioranza dell’esecutivo, che per anni ha proclamato senza portare risultati, ha iniziato ad annaspare – con progetti che affondavano e senza una visione chiara per il futuro –, è stata colta l’occasione per esibire la forza fisica. Fanno così gli uomini che non sanno più come mantenere il potere con altri mezzi, mostrano i muscoli.

Ieri i molinari sono rientrati in quegli spazi. Sono rientrati in quei locali vetusti che loro avevano trasformato in casa aperta e che ora sono murati e isolati dal resto del mondo. Sono rimasti al freddo, senza luce né acqua, circondati. Perché lo hanno fatto? Forse perché è proprio da qui che un dialogo sarebbe potuto ripartire, senza i proiettili di gomma e lo spray al peperoncino. A modo loro, forse raffazzonato e di certo poco popolare, hanno dato questa opportunità alla Città. Sette mesi dopo lo sgombero e la parziale demolizione nel pieno della notte del CSOA in barba a tutte le regole (le stesse che paiono scritte nella pietra, secondo le autorità), sono rientrati non per soldi, né per gloria, né per finire in cella con gli ematomi di qualche botta presa prima di venir ammanettati. Forse sono rientrati perché dopo sette mesi di silenzio assordante da parte dell’esecutivo e scuse a dir poco imbarazzanti della magistratura per giustificare un piano pensato quasi fin nei dettagli ma andato storto, per riavviare un dialogo bisognava riportare il discorso là dove era rimasto. Un’avvisaglia di scambio c’è stata, ma la minoranza – nemmeno quella dell’esecutivo – non ha voce in capitolo. Non parliamo di quella del legislativo. La maggioranza del Municipio non ha mai portato soluzioni che presupponessero una reale possibilità di autogestione perché non ha mai voluto capire cosa sia l’autogestione. Ieri sera non ha colto l’opportunità di dialogo offerta, a modo suo, dall’autogestione stessa. Da questa autogestione. Non serviva la polizia in tenuta antisommossa e non servivano i proiettili di gomma. Non stavano facendo del male a nessuno. Bastava andare là, di persona, ammettendo a sé stessi che c’è chi la pensa diversamente e che il compito di chi governa è ascoltare anche loro.

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