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MPS - Salario minimo. Quanto è lunga la coda di paglia...
Redazione
3 anni fa

Pensavamo che ad avere la coda di paglia in materia di salario minimo, alla luce delle vicende degli scorsi giorni, fossero solo i partiti artefici del pasticcio del 2019 e il governo ad avere la classica coda di paglia, vergognandosi di quanto successo. Scopriamo invece che anche le associazioni padronali (AITI in testa) e le organizzazioni sindacali hanno qualche scheletro nell’armadio e cercano di mettere le mani avanti verso quanto potrebbe succedere.

Non si può leggere altrimenti il comunicato con il quale il Dipartimento delle Finanze e dell’Economia (DFE) rende noto il contenuto dell’incontro avvenuto questa mattina tra “le parti sociali” (AITI e CC-Ti e UNIA e OCST) nel quale, si legge, le parti “convocate attorno al tavolo hanno condiviso” una serie di punti.

Tra questi ve ne sono due ampiamente contestabili. Mal si comprende, inoltre, per quale ragione delle organizzazioni sindacali, dopo tutte le discussioni di questi ultimi giorni, abbiano aderito a simili prospettive.

Il primo riguarda i tempi di attuazione del salario minimo legale. Qui si afferma che “la deroga prevista per i contratti collettivi di lavoro (CCL) è volta a valorizzare il partenariato sociale, dando tempo alle parti di progressivamente adattarsi ai nuovi parametri salariali previsti dalla Legge”. Il mondo all’incontrario. La legge è stata approvata proprio poiché i CCL non riescono a garantire minimi salariali (e in particolare minimi salariali decenti) nella stragrande maggioranza dei rapporti di lavoro. La deroga, intesa in questo senso, serve solo a non far fare troppe brutte figuracce alle organizzazioni sindacali che, in piena discussione sui salari minimi (e sapendo quali erano i livelli di discussione di questi stessi salari), hanno continuato a stipulare CCL con dei salari inferiori. Una volta preso atto che avrebbero dovuto adeguarsi ai pur miseri salari minimi previsti dalla nuova legge, hanno trovato la soluzione di adattarsi “a tappe” a questi minimi. Citiamo, ad esempio, il contratto collettivo del settore dell’abbigliamento. Ma non è che un piccolo esempio: la realtà produttiva del Cantone pullula di altre situazioni che avrebbero dovuto o dovrebbero adattarsi.

Questa tattica dilatoria è francamente inspiegabile e inaccettabile. Ricordiamo a tutti che l’iniziativa dei Verdi venne accolta in votazione popolare nel 2015 e che la legge di applicazione è stata approvata nel 2019. Vi era quindi tutto il tempo a disposizione per iniziare un percorso che avrebbe portato ad adeguarsi (nel 2021) ai minimi fissati nella nuova legge. Ma, evidentemente, le esigenze di profitto a breve termine hanno la meglio sul rispetto delle leggi.

A suscitare, tuttavia, ancora più preoccupazione è il secondo punto della dichiarazione “condivisa” nella quale si indica che “per alcune attività economiche il nuovo salario minimo può comportare un pericolo per la sopravvivenza stessa della azienda. È stato quindi ribadito che uno degli obiettivi delle parti è quello di trovare soluzioni che permettono anche la salvaguardia dei posti di lavoro nel rispetto dell’obiettivo posto dalla legge”. Dopo aver fatto, giustamente, fuoco e fiamme nei giorni scorsi contro le aziende e TiSin coinvolti negli accordi fasulli e deroganti, ecco ora, inspiegabilmente, le organizzazioni sindacali sostenere la stessa tesi che ha ispirato questi accordi e che è pure quella che AITI ha sostenuto nella sua lunga presa di posizione degli scorsi giorni.

In poche parole, il pur misero salario minimo previsto dalla legge potrebbe mettere addirittura in pericolo “la sopravvivenza” di settori economici e di aziende. Bisogna quindi trovare degli accordi per la “salvaguardia dei posti di lavoro”, evidentemente “nel rispetto dell’obiettivo posto dalla legge”. Idee a tal proposito? Vi sono soluzioni e trucchi infiniti. Ne buttiamo là una che rischia di avere un grande seguito: adeguare i salari dell’azienda ai minimi previsti dalla legge e, al contempo, aumentare l’orario di lavoro di una o due ore settimanali e il gioco è fatto. Si salvaguardano i posti di lavoro e si rispetta la legge...sulle spalle dei lavoratori e delle lavoratrici.

In realtà, ad essere in pericolo (ma non di tanto visti i livelli estremamente bassi del salario minimo legale) non sono i posti di lavoro, né tanto meno la sopravvivenza di aziende e settori economici.

Ad essere in pericolo sono i profitti e la redditività dei capitali investiti. Prendiamo, ad esempio, una di queste imprese protagoniste dell’accordo di cui si è discusso in questi giorni. Adeguarsi dai suoi livelli salariali attuali a quelli previsti dalla legge significa aumentare i salari di almeno 2 o 3 franchi l’ora. Se rapportiamo questo a un’azienda di circa 150 dipendenti, avremmo un aumento di oneri salariali pari ad almeno un milione di franchi l’anno. Una cifra tutto sommato bassa rispetto alla massa salariale, ma fondamentale per garantire un cospicuo tasso di profitto.

La posizione espressa in questo punto della dichiarazione “condivisa” non fa altro che riproporre la vecchia e stravecchia politica economica e industriale che ha giustificato, con il ricatto delle delocalizzazioni, i privilegi per le imprese: bassi salari, basse imposte, generose sovvenzioni.

Ad avere beneficiato di questa strategia sono i settori economici che, alla fine, se ne sono andati senza nemmeno ringraziare dopo avere sfruttato (e in parte anche deturpato) il nostro territorio (l’esempio della logistica per le imprese del lusso è lì a testimoniarlo).

Tutto ciò non ha fatto e non fa bene a chi vive e lavora in questo Cantone. E non ha nessun senso difendere aziende che vivono e approfittano di bassi salari e di pessime condizioni di lavoro per alimentare i propri profitti.

Dovrebbero prenderne atto soprattutto coloro che affermano di avere a cuore la difesa dei salariati e delle salariate.

MPS

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