
Il dibattito pubblico sulla condizione giovanile si sviluppa troppo spesso in loro assenza: si discute di giovani, ma raramente con loro, e quasi mai a partire da loro.
Non scrivo unicamente in qualità di rappresentante politico, ma anche come giovane cittadino pienamente consapevole delle tensioni esistenziali, delle carenze strutturali e delle aspirazioni profonde che segnano la condizione giovanile nel nostro Cantone.
Questa legge costituisce molto più di una semplice revisione normativa: essa rappresenta una presa di posizione culturale e simbolica, un atto politico nel senso più autentico del termine. Con essa si riconosce che la gioventù non è una porzione marginale o incompleta della cittadinanza, da controllare o disciplinare, ma una soggettività piena, generativa, dotata di capacità trasformativa e immaginativa. Una presenza viva, creativa, essenziale all'organicità del tessuto sociale.
La mia riflessione desidera soffermarsi su due assi concettuali che attraversano questa riforma: il concetto di spazio e il valore fondativo della collettività.
Viviamo in una società che, purtroppo, tende progressivamente a sottrarre luoghi di incontro autentici, gratuiti e accessibili. I giovani del nostro Cantone si trovano a crescere in un ambiente in cui lo spazio pubblico appare spesso come uno spazio deterrente, sorvegliato, talvolta ostile; uno spazio in cui l'accesso è subordinato a logiche di consumo, a prestazioni misurabili, a modelli performativi. In tale contesto, l'assenza di luoghi autonomi, accoglienti e privi di giudizio non è solo una carenza infrastrutturale: è una ferita esistenziale. Essa produce solitudine, disgregazione sociale, disillusione.
Ora, ci si può chiedere: cosa significa, davvero, "spazio" per una persona giovane, oggi? In che senso lo spazio è elemento costitutivo della soggettività? La riflessione proposta da Immanuel Kant nella Critica della ragion pura ci offre una chiave interpretativa interessante: lo spazio non è un oggetto tra gli altri, ma una condizione trascendentale della possibilità dell'esperienza. Senza spazio, nessun fenomeno può darsi all'intuizione. Trasportato nella sfera della convivenza sociale, questo pensiero ci impone una conseguenza politica: senza luoghi da abitare, da trasformare, da sentire come propri, non vi può essere esperienza sociale significativa per le giovani generazioni.
Ecco perché, da un punto di vista filosofico e civile, la questione dello spazio giovanile non è secondaria, ma essenziale.
La forza di questa esperienza si esprime in modo ancora più radicale nelle pratiche residenziali, come quelle delle colonie, dove lo spazio si intreccia alla dimensione del tempo condiviso. In queste realtà, i giovani non solo abitano un luogo, ma lo fanno per un periodo prolungato, lontani dalle abitudini quotidiane e dai circuiti familiari, sperimentandosi nella collettività. Il valore educativo della residenzialità non si esaurisce nella dimensione logistica, ma diventa una vera palestra di cittadinanza, dove si impara a stare con gli altri, a condividere responsabilità, a riconoscersi reciprocamente.
In questo quadro, la legge interviene in modo coraggioso e necessario, sancendo la possibilità per Cantone e Comuni di mettere a disposizione spazi pubblici – interni ed esterni – gratuitamente o a condizioni agevolate per attività ideate, promosse e vissute dai giovani stessi. Un principio contenuto nell'articolo 1 della legge, che va ben oltre l'efficienza amministrativa: riconosce il diritto di esistere nella sfera pubblica, il diritto di coabitare il territorio come cittadini attivi, portatori di senso, non semplici fruitori passivi di servizi.
La Risoluzione e la petizione dell'Associazione Realtà Giovanili Ticino, che qui volentieri rappresento, colgono perfettamente questa necessità, laddove denunciano l'insufficienza strutturale degli spazi e propongono azioni concrete: mappature, utilizzo temporaneo di stabili dismessi, sviluppo di aree pubbliche all'aperto. Tutto questo si radica nella convinzione che lo spazio è generatore di relazioni, di comunità, di parola e di senso; che lo spazio è anche un diritto, soprattutto per chi non ha altre risorse per costruire percorsi di emancipazione e di espressione.
Si tratta, in fondo, di una questione democratica: una società che non garantisce luoghi condivisi di esistenza è una società che rinuncia alla propria dimensione collettiva. Una società senza spazi è una società senza futuro.
E allora diciamolo chiaramente: i giovani non devono elemosinare luoghi dove esistere. Pensiamo a quanto valore sociale, culturale e simbolico esprimono le esperienze di autogestione responsabile, i progetti creativi nati dal basso, le iniziative che fanno vivere il territorio, spesso con pochissime risorse e con tantissimo impegno. Dare spazio ai giovani significa riconoscerne la capacità di visione, di progettualità, di cittadinanza.
Come scrive Georges Perec nel suo saggio Espèces d'espaces, «Viviamo senza pensare agli spazi che ci attraversano». In questa riflessione si cela un invito radicale: tornare a interrogare l'evidenza, a nominare ciò che troppo spesso diamo per scontato. Gli spazi, per Perec, non sono contenitori neutri ma matrici esperienziali: ci formano, ci orientano, ci mettono in relazione. Troppo spesso, i giovani si ritrovano a muoversi in ambienti privi di riconoscibilità e di significato, in quei "nonluoghi" che Marc Augé ha definito come spazi del transito e del consumo, dove l'identità si dissolve e la relazione si fa impossibile.
Questa legge, al contrario, ci invita a un gesto opposto e generativo: quello di pensare, progettare e abitare spazi dotati di senso. Luoghi in cui i giovani possano imprimere tracce, intrecciare narrazioni, costruire memoria collettiva.
La seconda dimensione che desidero affrontare è quella della collettività, della possibilità di stare insieme, di intessere relazioni, di edificare cittadinanza. La legge in oggetto valorizza esplicitamente le pratiche educative non formali, che si configurano come percorsi complementari all'istruzione scolastica e che sono capaci di generare competenze sociali, senso di responsabilità, e soprattutto il sentimento, oggi rarefatto, di appartenenza a una comunità.
In un mondo che promuove la frammentazione, l’autoreferenzialità e la prestazione individuale come orizzonti dominanti, questa legge restituisce centralità alla partecipazione, alla cooperazione, alla condivisione come forme generative del vivere comune. Non è un caso che Hannah Arendt, nel suo capolavoro Vita activa, rilevi che la dimensione autenticamente umana non nasce nella solitudine, ma nello spazio condiviso dell’azione e della parola: (cito) «L’essere umano non esiste in isolamento: è inserito in un mondo che condivide con altri. L’azione, e quindi la politica, nasce laddove gli esseri umani si incontrano, parlano e agiscono insieme».
Questo spazio dell’incontro, del confronto, dell’azione comune, non può essere considerato un privilegio: è, piuttosto, una condizione minima della democrazia. Va garantito, difeso, e continuamente reinventato.
La legge afferma con chiarezza che il benessere psicosociale delle nuove generazioni non può essere considerato una responsabilità esclusivamente individuale, bensì una questione di ordine collettivo. E che, se vogliamo costruire un futuro più giusto, più coeso, più umano, dobbiamo oggi generare le condizioni perché ogni giovane possa esprimersi, incontrarsi, apprendere e riconoscersi nel dialogo con l’altro.
Non possiamo sottovalutare il valore simbolico di una presenza pubblica che non si limita a finanziare, ma riconosce e legittima queste esperienze come parte integrante del progetto educativo collettivo. Così fu cinquant’anni fa con l’adozione della prima legge cantonale sulle colonie. Così dovrebbe essere anche oggi: non per burocratizzare ciò che nasce dalla vitalità del territorio, ma per rafforzare i legami tra apprendimento, convivenza e cura dell’altro. Ogni volta che uno Stato sostiene l’educazione come relazione – non come contenuto da trasmettere ma come cammino da fare insieme – esercita la sua funzione più alta.
Apprezziamo, inoltre, il metodo con cui questa legge è stata concepita e costruita: non calata dall'alto, ma generata attraverso un processo di coinvolgimento reale dei giovani e degli enti attivi sul territorio. L'esperienza dell'evento #facciamolegge, così come la consultazione ampia che ha visto il 93% dei partecipanti esprimersi favorevolmente, mostrano con chiarezza che quando si apre il dialogo, quando si riconosce l'autorità dell'esperienza vissuta, si producono strumenti normativi più efficaci, più legittimi, più giusti.
In questo senso, la legge stessa può essere letta come un atto collettivo, come una forma di cittadinanza attiva in atto, che ha saputo mettere in relazione le energie, le visioni, le intelligenze di coloro che il futuro lo abitano già: le giovani e i giovani del nostro Cantone.
Gli spazi e la collettività che questa legge promuove non sono soltanto dispositivi pratici: sono simboli. Simboli di una società che sceglie di riconoscere le sue nuove generazioni, di ascoltarle, di attribuire loro dignità e parola. Uno spazio giovanile non è solo un luogo fisico: è un segno visibile di fiducia, un invito all’espressione, un patto intergenerazionale. E ogni forma di collettività che nasce da questi luoghi non è soltanto socialità: è costruzione di senso, è educazione alla cittadinanza, è testimonianza vivente di una democrazia che non ha paura della pluralità, ma che da essa si lascia trasformare.
Un Cantone che investe con coraggio nella generazione che viene dimostra di non temere il cambiamento, ma di riconoscerne il potenziale. Dare spazio alle e ai giovani significa, in ultima istanza, dare spazio al futuro.
Yannick Demaria, granconsigliere GISO