
Alla fine della Seconda guerra mondiale, tra il 25 aprile e il 26 giugno 1945, i rappresentanti di una cinquantina di Stati si riunirono a San Francisco, in California, per partecipare alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’Organizzazione Internazionale. Proprio il 26 giugno, ottant’anni fa, negli stessi territori oggi teatro di manifestazioni contro l’agenzia federale statunitense incaricata della sicurezza dei confini e dell'immigrazione, fu firmata la Carta delle Nazioni Unite. Un documento fondativo che mirava a gettare le basi per una pace duratura, a prevenire il ripetersi del flagello della guerra, a riaffermare i diritti fondamentali dell’essere umano e la sua dignità, nonché a promuovere la giustizia e il rispetto del diritto internazionale.
In un mondo utopico, l’umanità avrebbe custodito gelosamente questa conquista e l’avrebbe commemorata ricordando le innumerevoli vite umane che sono state mietute per raggiungerla. Eppure, ci troviamo in una realtà che assume tratti sempre più distopici, nella quale – nella più benevola delle ipotesi – abbiamo semplicemente dimenticato quella preziosa eredità, e nella peggiore ne risultiamo del tutto disinteressati e indifferenti. Questo è il presente che contribuiamo a costruire, di cui siamo al contempo artefici, complici e spettatori. Un presente in cui, a pochi giorni dalla commemorazione dell’ottantesimo anniversario della Carta, i membri della NATO si sono riuniti per sottoscrivere una nuova dichiarazione che prevede un innalzamento graduale della spesa militare degli Stati membri dall’attuale 2% – stabilito nel 2014 – ad un inedito 5% del PIL entro il 2035. In termini semplici, ciò significa che, per ogni 100 euro spesi in consumi dalle famiglie, in investimenti pubblici, in capitale d’impresa o in esportazioni nette, 5 euro saranno destinati all’acquisto di armamenti.
Mentre in gran parte della società dilaga un’indifferenza generalizzata, in altri consessi tali anniversari assumono un valore simbolico. A meno di due settimane dal vertice NATO precedentemente menzionato, l’esercito israeliano ha sferrato un nuovo attacco ai danni di un Paese sovrano – questa volta l’Iran – in un’ulteriore violazione del diritto internazionale. Sebbene non sia questa, con ogni probabilità, la ragione principale dell’adesione strisciante dei membri NATO alla linea statunitense sull’aumento della spesa militare, l’operazione appare come un gesto strategico, forse volto a distogliere l’attenzione dalla sempre più palese sconfitta in Ucraina, forse a mascherare l’accelerazione del genocidio a Gaza sotto l’egida ed il silenzio complice di gran parte dei Paesi occidentali.
Non intendo qui soffermarmi sull’incremento della spesa militare, né sulle atrocità commesse da Israele – basti ricordare che tra il 2015 e il 2023 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato 154 risoluzioni di condanna nei confronti di Israele, a fronte di appena 71 rivolte ad altri Stati, la maggior parte delle quali bloccate dal veto statunitense, con rare eccezioni di semplice astensione. Voglio invece richiamare l’attenzione sull’intervento armato statunitense in territorio iraniano nella notte del 22 giugno 2025, avvenuto anch’esso a ridosso della ricorrenza degli ottant’anni della Carta dell’ONU.
L’imperialismo statunitense, tradizionalmente perseguito tramite una combinazione di coercizione militare e soft power – culturale, economico e politico – ha sempre cercato di costruire narrazioni articolate a sostegno delle proprie azioni extraterritoriali. Dalla guerra in Vietnam, giustificata come lotta al comunismo, al bombardamento della Serbia senza l’avvallo ONU e con la complicità della quasi totalità dell’Occidente, all’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq con prove poi rivelatesi false riguardo agli eventi dell’11 settembre 2001, per citarne alcuni, gli Stati Uniti hanno più volte impiegato la forza militare. Tuttavia, gli interventi nei confronti di apparati statali democraticamente eletti si sono finora “limitati” alla promulgazione di colpi di stato, attività di spionaggio, dirigismo economico e politico.
La novità inquietante dell’attacco all’Iran risiede nel fatto che per la prima volta gli Stati Uniti colpiscono direttamente uno Stato in cui formalmente vigono forme di rappresentanza democratica. Sorvolare su questo evento, evitare ogni forma di denuncia parlamentare, accettare passivamente – o addirittura glorificare – tale violazione significa legittimare una nuova fase di sdoganamento della guerra tra Paesi a suffragio popolare, accelerare il disfacimento del diritto internazionale e compromettere in modo irreversibile la credibilità dei Paesi occidentali quali interlocutori globali in un mondo multipolare.
Non ci si dovrà quindi stupire di un ritorno di conflitti armati intra-europei, né sorprenderà l’esigenza di un colpo di teatro magistrale per denunciare in modo credibile le più recenti derive (neo)coloniali degli Stati Uniti.
In questa involuzione continua e desolante, in questo presagio oscuro, emergono figure che si ergono a baluardi delle ideologie più nefaste – dal sionismo al neoconservatorismo – incarnandone le più autentiche interpretazioni, senza alcun pudore. Figure che si percepiscono ormai talmente potenti da non ritenersi più vincolate alle regole minime del gioco democratico, né alla necessità di instaurare narrazioni, per quanto dubbie o artificiose, a giustificazione delle proprie azioni.
Però proprio in questo frangente storico, alimentato da un’apparente superiorità, da Trump a Netanyahu, passando per presidenti e primi ministri dei principali Paesi occidentali – senza escludere influenti attori del mondo economico e della società civile – questi protagonisti della contemporaneità sono usciti allo scoperto e hanno preso parte al ballo non più tanto mascherato delle celebrità.