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Giuseppe Sergi - Di salari minimi, sindacati farlocchi e di lotta al dumping
Redazione
3 anni fa

La vicenda delle tre aziende firmatarie di un accordo (chiamato abusivamente “contratto collettivo di lavoro”) che deroga al salario minimo legale (che dovrebbe entrare in vigore il 1° dicembre) ha sollevato parecchie discussioni su vari aspetti: contrattuali, sindacali e, ultimo ma non da ultimo, politici. Vediamo di fare un po’ di ordine.

Per aggirare la legge non è necessario un sindacato, nemmeno uno “farlocco”
È assodato che la Legge sul salario minimo, così come voluta dal Gran Consiglio – da tutti i partiti presenti in Gran Consiglio salvo l’MPS – offre la possibilità di derogare al salario minimo fissato dalla legge. La lettera i) dell’articolo 3 è molto chiara e afferma che è possibile derogare ai salari minimi per quei “rapporti di lavoro per i quali è in vigore un contratto collettivo di lavoro di obbligatorietà generale o che fissa un salario minimo obbligatorio.”.

Contrariamente a quanto si pensa, un contratto collettivo non è un contratto che deve avere per forza un’estensione regionale, cantonale o nazionale. Può benissimo avere come raggio di azione quello di una sola azienda (poco importano le sue dimensioni); un’azienda nella quale vi sia un soggetto (un’associazione dei lavoratori e delle lavoratrici regolarmente costituita) che negozia un contratto valido per tutta l’azienda con il datore di lavoro.

Non servono necessariamente dei sindacati, né quelli riconosciuti come tali, né quelli inventati e farlocchi alla TiSin, per organizzare un’operazione come quella vista in Ticino. Basterebbe la volontà di un pugno di salariati dell’azienda che si costituiscano in associazione (con il generoso sostegno del loro datore di lavoro) che, una volta avuto un certo consenso (sempre con l’aiutino del datore di lavoro), negozino un CCL valido per tutta l’azienda.

È d’altronde questa una prassi che il mondo del lavoro, soprattutto in Svizzera tedesca, conosce da sempre. Sono numerosi i CCL aziendali firmati dalle cosiddette “hausverbände”, cioè associazioni di lavoratori organizzati a livello aziendale. Associazioni, come detto, spesso incoraggiate dagli stessi datori di lavoro.

La possibilità di deroga apre le porte a tutto questo, al di là del tentativo leghista di TiSin.

Non si poteva veramente fare altrimenti?
In questi ultimi giorni (in verità così era già avvenuto in occasione della discussione sulla legge nel 2019) gli artefici di questo pasticcio (a cominciare dagli iniziativisti, ma poi tutto il fronte a sostegno della legge, governo compreso) sostengono che non fosse possibile, visto la modifica della costituzione approvata con il voto del 2015, ovviare a questo problema in sede di approvazione della legge.

A questa pietosa bugia possono essere opposte almeno due obiezioni di fondo. La prima è che l’articolo costituzionale lasciava molto spazio ad una interpretazione più restrittiva, a proposito delle deroghe, di quanto invece tutto questo bel mondo con la coda di paglia voglia farci intendere. Leggiamola bene questa disposizione che chiude l’art. 13 della Costituzione cantonale: “Se un salario minimo non è garantito da un contratto collettivo di lavoro (d’obbligatorietà generale o con salario minimo obbligatorio), esso è stabilito dal Consiglio di Stato e corrisponde a una percentuale del salario mediano nazionale per mansione e settore economico interessati”. Questo paragrafo finale arriva dopo la parte iniziale del capoverso 3 dell’art. 13 che prevede: “Ogni persona ha diritto ad un salario minimo che le assicuri un tenore di vita dignitoso”.

Ora, ci pare assodato che se la Legge fissa un salario considerato “dignitoso” (facendo astrazione in questo momento dal fatto che la legge approvata – 19 e rotti franchi che potranno essere 20, cioè 3’360 fr, per 13 mensilità – a nostro avviso non sfiora nemmeno la “dignità”), non può in nessun modo prevalere una “dignità” di valore inferiore a quanto stabilito dalla legge. Pensiamo che in un paese come la Svizzera, con un Tribunale federale al servizio, come sempre, dell’ordine e del potere padronale costituito, questo ragionamento avrebbe potuto, di fronte a un ricorso, avere grandi possibilità di successo. Questo avrebbe dovuto spingere il Gran Consiglio a legiferare senza concedere possibilità di deroga.

La seconda obiezione è che in questo tipo di discussione il Parlamento cantonale non ha voluto nemmeno entrare in materia quando l’MPS ha proposto alcuni emendamenti, tra i quali proprio quello di cancellare questa possibilità di deroga ai minimi legali. Platealmente, come ha fatto il capogruppo dei Verdi Schönenberger, affermando che “per principio” non avrebbero votato nessun emendamento. Ancora più lapidario l’intervento del correlatore Michele Guerra (Lega) (ricordiamo che, sempre nel clima di amorevole concertazione, i correlatori, cioè i sostenitori della Legge a nome della commissione della gestione, erano, oltre a Guerra, Ivo Durisch (PS), Fiorenzo Dadò (PPD) e Samantha Bourgoin (Verdi)): “La Commissione gestione e finanze, all’unanimità dei presenti, ha preavvisato negativamente questo emendamento” (Non sappiamo chi fossero “i presenti”, ma presumiamo che vi fossero i rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari).

La ragione è molto semplice e l’ha spiegata lo stesso Schönenberger: “poiché sembra che [gli emendamenti] si prefiggano di far fallire la soluzione di compromesso finalmente raggiunta”. Parole chiare. La legge ha degli inconvenienti? Non se ne discute nemmeno: chi fa proposte di modifica vuole abbattere il “prezioso compromesso” raggiunto. Un compromesso, come abbiamo detto allora e ripetiamo adesso, che introduce una logica di dumping, visti i bassissimi livelli salariali, e che ha aperto la posta al deprimente spettacolo di questi giorni.

Si tratta di un atteggiamento gravissimo e irresponsabile da parte del Parlamento (e dei suoi gruppi politici) che in questo modo ha servito su un piatto d’argento anche argomenti legali ai fautori della possibilità di deroga. Il fatto stesso che l’emendamento dell’MPS che chiedeva di abrogare questa possibilità abbia raccolto in tutto 5 voti favorevoli conferma (e qualsiasi Tribunale farebbe propria questa interpretazione) che la volontà del Parlamento era di concedere questa possibilità di deroga. Considerazione giuridica, ma anche altamente politica che ci dice quanto valgano le recriminazioni odierne sentite da più parti politiche.

E ora?
Da quanto abbiamo appena detto, ci pare necessario che, al di là della valenza negativa della legge e dei salari fissati, si possa almeno “mettere una pezza” alla questione delle deroghe. Per questo l’MPS ha già presentato due proposte. La prima, un’iniziativa parlamentare legislativa tesa ad abrogare questa famosa lettera i) dell’art. 3 della legge. Il Parlamento, se avesse la volontà politica, potrebbe farlo in pochi giorni anche se ne dubitiamo. La seconda, un’iniziativa parlamentare costituzionale, che interviene sul famigerato articolo 13, formulando con chiarezza l’impossibilità di derogare ai salari minimi legali e, allo stesso tempo, propone un nuovo salario minimo che riesca a far uscire questo salario dai livelli assistenziali e di povertà nei quali sguazzano i minimi oggi fissati nella legge. Anche qui, se la volontà politica ci fosse, ci vorrebbero pochi mesi per sottoporre queste modifiche alla decisione popolare.

Altre scelte (come l’iniziativa popolare costituzionale annunciata dal PS per correggere l’art. 13) richiederebbero diversi anni per la procedura visti i ritmi della politica ufficiale (ritmi voluti e condivisi dai partiti di governo che poi si lamentano, nelle trasmissioni televisive, della “lunghezza dei tempi della politica”, loro che sono “la politica”). Certo, servono a farsi un po’ di propaganda, a cercare di far dimenticare quanto si sia stati partecipi della messa in piedi di una brutta legge, per di più aggirabile; ma mostrano solo la coda di paglia di costoro e non danno nessuna risposta concreta nel contesto attuale.

Una brutta iniziativa, diventata una brutta legge: i cui frutti amari cominciano a vedersi ancora prima che essa entri in vigore. Non osiamo pensare cosa potrà succedere quando, anno dopo anno, la discesa di tutto il sistema salariale cantonale verso il limite legale dei 3’000 franchi raggiungerà la sua piena maturità.

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