
La vittoria schiacciante delle due iniziative sul taglio dei premi di cassa malati non è solo un messaggio alla politica: è uno schiaffo che ci ricorda quanto il sistema stia scricchiolando. Ora è iniziata la caccia ai soldi e – come spesso accade in Ticino per paura di perdere consensi e non solo – ci si muove in fretta, con interviste, mozioni e prese di posizione d’emergenza, come se il problema fosse nato il 28 settembre e non covasse da anni. Tra i primi temi arrivati sul tavolo c’è quello delle rendite, anche quelle destinate ai giovani. È un fenomeno in crescita: da un lato ragazzi che finiscono dipendenti dallo Stato perché formati in settori senza futuro o non formati a sufficienza; dall’altro giovani che sembrano aver perso l’ambizione – forse perché gliel’abbiamo tolta noi adulti, forse perché non hanno mai avuto stimoli per coltivarla.
Quei giovani che scompaiono dai radar
Il risultato è chiaro: nonostante l’obbligo formativo, troppi scompaiono dai radar della formazione, ma restano ben presenti come peso per la società. E mentre una parte della gioventù esce di scena, l’economia urla l’opposto: mancano figure qualificate, mancano competenze per reggere la domanda e la complessità crescente del lavoro. È qui che si crea il corto circuito: un divario enorme tra chi cerca lavoro e chi cerca personale, destinato a sfociare in una crisi economica e sociale. In Ticino abbiamo un’abitudine radicata: invece di affrontare i problemi – anche a costo di scontentare qualcuno – preferiamo mettere “cerotti”. Piccole misure tampone che non incidono davvero e che soprattutto non toccano mai il cuore del sistema. Lo si vede chiaramente nella formazione: continuiamo a preparare giovani in mestieri che non offrono prospettive occupazionali reali, mentre i settori che avrebbero bisogno urgente di manodopera restano scoperti.
La pratica nascosta della retrocessione
Non è certo una sorpresa: AITI aveva denunciato questo squilibrio anni fa. Ma invece di intervenire, si è atteso lo Stato. E intanto quel treno è passato, e per recuperarlo serviranno molti più sforzi e risorse. A peggiorare lo scenario, si aggiunge un’altra pratica nascosta ma sempre più diffusa: la retrocessione. Ragazzi che hanno iniziato un apprendistato triennale o quadriennale (AFC) e che incontrano difficoltà vengono spinti verso una formazione biennale (CFP), sicuramente più facile ma allo stesso tempo meno pagante in termini di diploma. Una soluzione rapida, certo: meno fatica per il giovane, meno problemi per la scuola, diploma garantito per tutti. Ma dietro questa scorciatoia si nasconde una verità scomoda e preoccupante. Un titolo biennale, in un’economia sempre più specializzata, apre pochissime porte. E chi riesce comunque a lavorare si ritrova con stipendi troppo bassi per vivere dignitosamente in Ticino. Non raccontiamoci la favola che “poi si può sempre proseguire con un AFC”: lo sappiamo bene, nello sport la retrocessione si evita perché risalire è quasi impossibile. Servono anni, condizioni favorevoli e una motivazione che nel frattempo spesso si spegne. Anche nell’apprendistato funziona così.
Il filo conduttore dell’illusione
Ancora una volta, non risolviamo nulla: spostiamo il problema più avanti, creando giovani diplomati che non generano valore, alimentando un’economia a basso costo e costringendo lo Stato – cioè tutti noi – a sostenerli di nuovo. Il filo conduttore resta sempre lo stesso: l’illusione. L’illusione di garantire un futuro quando in realtà consegniamo solo un pezzo di carta. L’illusione di risolvere i problemi di oggi mentre stiamo accumulando costi ancora più pesanti per domani. L’illusione, infine, di aver fatto il proprio dovere, quando in realtà abbiamo solo spostato la polvere sotto il tappeto. Ed è qui che emerge la più grande contraddizione del Ticino: sappiamo prendere strumenti che altrove funzionano – e che ci vengono persino invidiati – e trasformarli non solo in zavorre che ci fanno arretrare, ma addirittura in esempi da esibire come se stessimo facendo un buon lavoro. Questo è il corto circuito silenzioso che, se non affrontato, ci presenterà un conto molto più alto di quanto oggi crediamo di risparmiare. Perché chi ricopre funzioni politiche o dirigenziali dovrebbe ricordare che non si tratta solo di amministrare, ma di assumersi la responsabilità delle proprie scelte – o non scelte – verso il futuro della società.
Sara Rossini, fondatrice e CEO di Fill-Up