Sara Rossini
Giovani in difficoltà: il fallimento silenzioso di una società che ha smarrito la sua bussola educativa
Redazione
5 giorni fa
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Un altro giovane aggredito a Lugano. Di nuovo. E ogni volta ci indigniamo. Ma la verità è che questi  episodi non sono eccezioni: sono il segnale evidente di un sistema educativo profondamente in crisi.

Viviamo in una società dove tutto si giustifica e quasi nulla si affronta davvero. Ai giovani non si trasmettono più regole, né limiti, né senso di responsabilità. E la relazione – non solo educativa, ma umana – si è sgretolata: non sappiamo più entrare in contatto reale con gli altri, soprattutto con i più giovani.

A scuola non si boccia quasi più. Si chiude un occhio, poi l’altro, finché il “problema” non si autoesclude. I genitori delegano, e poi si arrabbiano quando qualcun altro prova a mettere dei paletti ai loro figli. Gli insegnanti sono disarmati. L’autorevolezza è evaporata, sostituita da una tolleranza a vuoto che non genera crescita, ma solo disorientamento.

Nel frattempo, attorno ai giovani si è costruita una rete di figure educative, spesso animate da buone intenzioni, ma troppo protettive nel loro approccio. Si ripete che “stanno cercando sé stessi”, che “non vanno forzati”, che “vanno accompagnati con delicatezza”. Ma questa forma di accudimento sociale, pur gentile, rischia di trasformarsi in una gabbia dorata: tutto è comprensibile, tutto è giustificabile, tutto è tollerato… e nulla viene davvero trasformato. Peccato che là fuori, nel mondo reale, le aspettative siano ben diverse. E molto meno indulgenti.

E mentre chiediamo ai giovani di rispettare le regole e affrontare le conseguenze delle proprie azioni, noi adulti per primi fatichiamo ad assumerci le nostre responsabilità. Lo vediamo chiaramente: si cerca sempre un colpevole, ma mai nel proprio giardino.

Abbiamo costruito un’immagine sociale in cui tutto deve sembrare perfetto: tutti trovano una collocazione al termine della scuola dell’obbligo (anche se molti giovani, dopo pochi mesi, si ritrovano a casa senza un progetto e con famiglie in crisi); alla fine dell’apprendistato “quasi tutti” risultano già inseriti nel mondo del lavoro (dimenticando che solo il 34% dei giovani ha effettivamente risposto all’inchiesta). E si potrebbe continuare.

Non lo facciamo per infondere speranza nei giovani, ma per tutelare noi stessi. Per mostrare – a noi stessi e agli altri – che il sistema funziona, che tutto procede come dovrebbe. Così nessuno viene messo in discussione. Ma a forza di raccontare un mondo che non corrisponde alla realtà, finiamo per escludere proprio quei giovani che, come non mai, avrebbero bisogno di essere visti, ascoltati e riconosciuti per davvero.

Una fetta importante della gioventù non si riconosce nel racconto ufficiale. Si sente sempre più esclusa, ai margini, sola. Anche perché non ha ancora gli strumenti per decodificare la realtà che le viene presentata.

E anche il mondo del lavoro comincia a pagarne le conseguenze. In un contesto già reso fragile da carenze di personale e competenze, non si può pretendere che siano le aziende a supplire alle mancanze educative della società. Eppure, è proprio quello che sta accadendo.Le aziende, di fronte a giovani privi di strumenti relazionali, regole interiorizzate e spirito di adattamento, spesso preferiscono interrompere il percorso formativo ai primi segnali di difficoltà, anziché investire energie per accompagnarli in un cambiamento. Il risultato? Sempre meno giovani diventano realmente impiegabili. Un danno silenzioso, ma gravissimo, che mina il ricambio generazionale e la tenuta futura del tessuto produttivo e sociale.

Nel tentativo di “salvarli”, si finisce per offrire scorciatoie pericolose: rendite, disoccupazione, assistenza precoce. Addirittura, si arriva a proporre di inoltrare delle richieste di AI (assicurazione invalidità) per ansia sociale già a 17 anni. Un cortocircuito che, invece di rafforzarli, li rende ancora più fragili, dipendenti e non da ultimo, esclusi.

Una volta erano i giovani a sostenere gli anziani. Oggi è il sistema a sostenere giovani che non sono mai stati messi nella condizione di sostenersi da soli.

Eppure, i giovani non chiedono scorciatoie. Chiedono coerenza. Chiedono confini. Chiedono conseguenze vere. Ma per offrirglieli, serve che chi sta dall’altra parte – famiglie, scuola, istituzioni e aziende – abbia il coraggio di riconoscere che il problema esiste davvero.

Serve una svolta. Urgente. Perché una società che non è più capace di educare, non può nemmeno sperare che i giovani diventino cittadini, lavoratori e adulti consapevoli.

Sara Rossini, fondatrice di Fill-Up apprentice

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