Maria Pia Ambrosetti
Contro l’app di Stato “anti-fake”: la libertà d’opinione non si tutela con la censura
Redazione
14 giorni fa
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Un’app “contro la disinformazione” suona bene finché non ci si chiede chi decide cosa sia disinformazione. L’idea che lo Stato svizzero sviluppi uno strumento per classificare contenuti come “veri” o “falsi” rischia di trasformare una misura presentata come tutela in un dispositivo di controllo del racconto pubblico. In un’epoca in cui le informazioni viaggiano veloci, la tentazione di ristabilire dall’alto l’“interpretazione corretta” è forte. Ma quando l’arbitro è anche giocatore, la fiducia svanisce.

Molti temono una deriva prevedibile: l’app non si limiterebbe a smascherare bufale evidenti, ma finirebbe per orientare il dibattito verso ciò che è compatibile con la linea governativa. Il paradosso è doppio. Primo: i contribuenti finanziano uno strumento che potrebbe restringere la loro libertà di espressione. Secondo: si passa dalla valutazione aperta delle idee alla legittimazione di etichette, colpendo opinioni scomode più che falsità dimostrabili.

La democrazia non vive di “verità ufficiali”. Il miglior antidoto alle fake news è sviluppare il pensiero critico, che nasce dal confronto tra fonti, dalla verifica pubblica delle affermazioni, dal contraddittorio fra posizioni opposte. Servono spazi dove il dibattito sia reale e pluralista, non mediato da algoritmi o “verificatori” nominati dall’alto.

Il problema si inserisce in un quadro più ampio: la digitalizzazione a oltranza, con strumenti come l’identità elettronica, che lega ogni interazione a un profilo statale unico. L’ID-e non è solo un comodo pass digitale: è la chiave che consente, potenzialmente, di collegare ogni nostra attività online a un’identità verificata. Se a questo si aggiunge un sistema statale di classificazione dei contenuti, il passaggio dalla facilitazione dei servizi al controllo capillare dell’informazione è breve. Anche senza intenzioni malevole, l’effetto di autocensura è inevitabile: sapere che ogni parola può essere “marchiata” come disinformazione spinge molti a tacere.

Chi decide cosa è falso e cosa è vero? Saranno criteri pubblici e verificabili? Ci sarà possibilità di ricorso? O saranno decisioni prese da uffici legati all’esecutivo? Senza garanzie solide di trasparenza, indipendenza e controllo pubblico, uno strumento nato per proteggere diventa un confine invisibile del dicibile.

La Svizzera ha costruito la propria forza democratica sulla fiducia dal basso: referendum, federalismo, media locali. Difendere questa tradizione significa accettare il disordine del dibattito, non levigarlo con filtri statali. Meglio investire nell’alfabetizzazione mediatica e promuovere piattaforme di discussione aperta, dove le tesi possano essere messe alla prova in pubblico.

Un governo che pretende di certificare la verità perde la fiducia prima ancora di “proteggere” il cittadino dalle fake. Non abbiamo bisogno di un ministero della Verità in formato app, né di un’identità elettronica che apra la strada al controllo totale: abbiamo bisogno di cittadini informati, istituzioni trasparenti e dibattiti liberi. Altrimenti è solo controllo paternalistico travestito da protezione.

Maria Pia Ambrosetti, deputata in Gran Consiglio per HelvEthica Ticino

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