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"Io medico, mamma di tre figli"
"Io medico, mamma di tre figli"
"Io medico, mamma di tre figli"
Redazione
6 anni fa
La testimonianza di una madre, che ci racconta dei suoi tre parti

Riceviamo e pubblichiamo in forma integrale, la testimonianza dei tre parti di una mamma-medico, inoltrataci dall'Associazione Nascere Bene Ticino.

"Ho tre figli, nati con parti ben differenti tra loro, ognuno dei quali ha cambiato il mio modo di vedere e vivere l’esperienza di venire al mondo toccando profondamente anche il mio modo di essere, sia come mamma, sia come medico e come moglie."

Dana

"Con una nuova, magica presenza dentro di me, mentre la mia vita trascorreva apparentemente come d’abitudine, finalmente verso il sesto mese di gravidanza mi decisi a prendere del tempo per noi, dedicandoci qualche oretta seguendo un corso di yoga, dopo il lavoro in ospedale, dove esercitavo nel reparto di medicina interna al 100%. Era la mia prima esperienza in questo ambito e devo ammettere che è stata piacevole, soprattutto perché mi ha permesso di uscire dalla solita routine professionale e dirigere lo sguardo e il sentimento verso questo germoglio che cresceva dentro me con più intensità e consapevolezza. Tramite il corso sono venuta a conoscenza di un seminario proprio vicino a casa, condotto dal dottor Leboyer, personaggio del quale nei miei studi non avevo mai sentito parlare, al quale ho deciso di partecipare con mio marito. Questo sì che mi ha colpita, non tanto per gli esercizi o il canto carnatico, che comunque mi sono stati utili durante tutti e tre i parti, quanto per il cambiamento di prospettiva che a tratti proponeva. Ricordo per esempio che un giorno chiese: «Avete già pensato a dove partorirete vostro figlio?». Domanda che fino a quel momento non mi ero mai posta; era scontato che avrei partorito in ospedale, come da «nostra cultura»... e invece, grazie anche al sostegno di mio marito, ci siamo posti la domanda, alla quale abbiamo scoperto che vi erano diverse risposte e abbiamo deciso che ci sarebbe proprio piaciuto far venire alla luce la nostra creatura tra le mura di casa. Ho letto un libro di Leboyer che pure mi ha aperto un mondo e cambiato radicalmente la prospettiva sulla nascita. Se penso a come spesso vengono trattati i neonati in sala parto/sala operatoria da infermieri e medici, dopo l’esperienza del parto e aver avuto l’occasione di mettermi dall’altra parte, presterei molta più attenzione al neonato e alla madre. Penso che per la maggior parte dei medici, con una formazione classica, non sia così scontato scorgere altre strade oltre a quelle percorse e studiate durante la formazione e rendersi conto che la nascita in fondo è e dovrebbe rimanere un processo fisiologico e naturale, per quanto possibile. È solo così che può dispiegarsi al meglio, senza complicazioni, e donare a madre e bambino tutto quanto di tangibile, di emotivo e spirituale, essa è in grado di dare. Nel mio caso, alla fine non è andata proprio come speravo malgrado fossimo riusciti a organizzarci per un parto a domicilio, cosa non così facile al sesto mese, essendo le levatrici disponibili a tale esperienza ancora troppo poche sul territorio, vista la richiesta di un’enorme disponibilità di tempo e una certa dose di coraggio e fiducia reciproca. Una settimana dopo il termine, a un controllo di routine dal ginecologo, fui informata che il peso del bambino era drasticamente aumentato (oltre i quattro chili) e che il parto sarebbe stato a rischio per una distocia della spalla: era quindi troppo rischioso partorire a casa. Avevo sì studiato medicina e lavorato qualche anno, compreso uno in pediatria, ma in quel momento le mie conoscenze teoriche sono crollate e mi sono trovata come di fronte a un muro. Ricordo di essere uscita dallo studio del collega con un sentimento di smarrimento: come era possibile che in una settimana la creatura fosse cresciuta di ben mezzo chilo? Da qualche parte ero convinta che la risposta stesse in un lievissimo errore di misurazione con il sonografo... ma il ginecologo non considerava questa ipotesi. Dopo aver informato mio marito, chiamai la levatrice che mi seguiva: una signora con decenni di esperienza, una viva presenza e un’autenticità che traspariva dallo sguardo e dalle sue parole. Mi disse che sarebbe passata da casa per vedere come stavo. La sua calma e la sua onestà mi permisero di ritrovare la fiducia in me stessa. Poi mi pose le sue mani sulla pancia, tastò per un po’ e alla fine disse: «Secondo me questa creatura pesa circa tre chili e seicento grammi e, se ci fosse qualcosa che non va, siamo a tre minuti dall’ospedale». Ciò che mi ha aiutata di più è stato il suo collegamento alla realtà, alla pancia proprio tramite i sensi, in questo caso il tatto, la vista e l’udito (per sentire il battito del neonato), senza scordare il buon senso. E fu così che proprio quel pomeriggio cominciarono le doglie e, malgrado fossero le prime della mia vita, capii che mia figlia aveva deciso di iniziare il suo viaggio alla scoperta del mondo. Fu un’esperienza molto intensa, in parte vissuta magicamente in solitaria a casa, e in parte accompagnata dalla discreta presenza delle due levatrici e dal «guardiano di casa», mio marito, che badava a che tutto fosse presente e funzionante e mi faceva sentire al sicuro senza che io dovessi occuparmi di alcunché, se non del viaggio che era appena iniziato. Dopo circa otto ore di travaglio avevo una discreta dilatazione e persi le acque, le levatrici dissero che erano leggermente tinte, così per precauzione decisero che sarebbe stato meglio se fossimo andate in ospedale, anche se non vi erano altri segnali di sofferenza fetale.Da parte mia, in quella situazione non mi sentivo in grado di valutare né giudicare e diedi completa fiducia a chi avevo di fianco; così, tra una doglia e l’altra, mio marito prese la borsa coi vestiti e di fretta con l’auto andammo in ospedale. Qui possedevanogià tutti gli incarti, visto che il mio ginecologo lavorava per l’ospedale, ma l’accoglienza fu piuttosto allarmante: ricordo che dopo tutte le domande del caso da parte delle infermiere, quando arrivò il medico assistente la prima cosa che mi disse fu: «ora dobbiamo metterle un catetere». La mia risposta, sempre tra doglie più ravvicinate fu: «piacere, io mi chiamo Federica, e lei?». La differenza fu abissale: l’ambiente casalingo, tra persone più o meno note, che in punta di piedi mi osservavano e mi consigliavano, e l’ospedale, un ambiente sterile, con domande, luci, punture per prelievi e cateteri, lo sguardo alla meta, senza considerare la via e le persone che vi stanno andando.Infine, l’arrivo del ginecologo che dopo una sonografia d’urgenza annunciò il verdettofinale: taglio cesareo per mancata progressione del parto. Ci credo, con tutte quelle domande mi sono sentita catapultata fuori dal mio viaggio. L’anestesista fu il medico più empatico che incontrai quella sera, non tanto per avermi tolto i dolori delle doglie, bensì per il suo calore umano e la tranquillità che sapeva trasmettere. Dana nacque quindi da parto cesareo senza sofferenza fetale, peso alla nascita 3650 grammi, quasi esattamente come previsto dalla levatrice. Rimasi tre giorni in ospedale e appena fu possibile rientrai a casa, dove fui seguita dalla mia levatrice, che passava regolarmente."

Noah

"Dopo questa esperienza, per me la prospettiva del neonato era diventata fondamentale, tanto che, quando aspettavo il mio secondo figlio oltre due anni dopo, lo stesso ginecologo mi propose una risonanza magnetica per valutare la dimensione del mio bacino e comunque un parto cesareo programmato: riuscii finalmente a esprimere il mio scetticismo sull’approccio da lui proposto e grazie anche al prezioso sostegno di mio marito, anche lui medico, dissi che avevo bisogno di un secondo parere – e il tutto quasi all’ottavo mese di gravidanza. Personalmente non credevo nella risonanza magnetica per la diagnosi di un bacino stretto, essendo convinta che durante il parto le dimensioni variano, la lassità legamentare aumenta, eccetera, e l’idea di un cesareo programmato proprio non mi andava giù. Sentivo che era importante che fosse il bambino a scegliere quando sarebbe stato il momento giusto per nascere; se poi ci fosse stato bisogno di un cesareo, sarei stata la prima a richiederlo, ma non a priori. Mi rivolsi a una ginecologa che fortunatamente proveniva da un’«altra scuola» e mi disse che anche lei non riteneva necessario dover fare una risonanza magnetica. Mi rincuorò e mi disse che per lei si poteva certamente provare a fare un parto fisiologico, ma non a domicilio, visto che il primo era stato un parto cesareo. Cosi comunicammo al primo ginecologo che avevamo trovato qualcuno che era pronto a seguirci in modo fisiologico. A differenza del primo parto, restammo in dubbio diversi giorni prima di capire se il travaglio fosse iniziato, sempre accompagnati dalla nostra levatrice, e vivemmo momenti indimenticabili colmi di serenità anche in sua compagnia. Quando finalmente capimmo che era giunta l’ora, a differenza della prima figlia, i tempi furono diversi: impiegai quasi venti ore per la dilatazione, buona parte delle quali trascorse in sala parto, accompagnata da levatrici molto rispettose e discrete, che mi permisero di muovermi come sentivo, senza necessità di un monitoraggio continuo. Provai a immergermi nella vasca, a prendere diverse posizioni sulle apposite sedie, ma il piccolo dopo due ore di spinta ancora non voleva saperne di uscire: a quanto pare «ammirava le stelle», mantenendo la testolina in estensione invece di piegarla verso il petto prendendo la via naturale; così la ginecologa mi disse che mi avrebbe aiutato ad abbassargli la testa utilizzando la ventosa. Anche in questa occasione non fui in grado di valutare o giudicare la situazione, sapevo che avrei ancora potuto resistere per un po’, ma dissi che, se proprio lo riteneva necessario, avrei accettato. E così fu: dovetti prendere la posizione poco piacevole del lettino con le gambe rialzate e in poco tempo, il piccolo dovette per forza abbassare la sua testolina e riuscì a uscire. Le cose che più mi diedero fastidio e ancora fatico ad accettare furono che, dopo un parto medicalizzato, automaticamente, senza chiedermi nulla, mi infusero dell’ossitocina e che l’équipe dei pediatri mi portò via il piccolo per dieci lunghi minuti per i primi controlli del caso, cosa che avrebbero benissimo potuto fare lasciandomi mio figlio sul ventre, visto che non presentava nessuna complicazione. Fu invece sottoposto all’intensa luce delle lampade, completamente solo tra estranei, quale primo incontro. Decidemmo per un parto ambulatoriale, così che il giorno seguente potemmo portare Noah a casa e rimanere finalmente tutti in famiglia."

Anya

"Tre anni dopo fu la volta della terza gravidanza: a questo punto sapevo bene cosa volevo e come funzionava, quindi mi organizzai per tempo. Sentivo forte che la cosa più bella che potevo donare a mia figlia, se la gravidanza l’avesse permesso, sarebbe stata accoglierla con calma e serenità a casa, in un ambiente famigliare. Cercai delle levatrici con le quali sentivo un buon feeling (cosa essenziale) e nelle quali avevo fiducia e, convinta, chiesi loro se volevano accompagnarmi in un parto a domicilio.Anche per loro fu una situazione difficile, perché in realtà dopo parti medicalizzati (fra cui un cesareo) non sarebbe prassi seguire una gravida a casa. Fortunatamente, oltre a essere brave e competenti, erano anche coraggiose, e accettarono di sostenere la mia scelta. Ci incontrammo diverse volte e si instaurò un bellissimo rapporto di fiducia e comprensione. Cercai di organizzare tutto al meglio, tanto che le levatrici andarono a parlare anche con il primario di ginecologia dell’ospedale vicino a casa per annunciare il caso, poiché la mia ginecologa lavorava in un altro ospedale e quindi, in situazione di urgenza, non sarebbe stata presente. Quando le vidi, mi dissero che il primario dava per scontato che almeno una via venosa venisse messa in tale situazione, e anche questa volta riuscii a esprimere il mio sentimento, ossia che, se veramente credevamo in ciò che stavamo facendo, non sarebbe stato necessario mettere una via venosa per fare piacere al primario, ma se la situazione avesse invece mostrato che si rendeva necessario, avrei accettato senza dubbio alcuno il loro parere. Era il mese d’agosto e mi trovavo in valle Verzasca quando avvisai i primi segnali che la creatura mi stava dando, così scesi in auto fino a casa. Riuscii ad addormentarmi e fino alla sera seguente tutto si tranquillizzò. Poi, come per la prima figlia, velocemente capii che il viaggio era iniziato. Fortunatamente, tutti i miei figli hanno deciso di venire al mondo durante la tarda sera o a notte inoltrata, cosi da poter vivere la calma della notte senza le distrazioni e i rumori del giorno e riuscire a entrare più facilmente in quella dimensione che mi collegava maggiormente alle creature che portavo in grembo. Dopo un’oretta, avvisai le levatrici che con calma arrivarono e in poche ore mia figlia venne alla luce, nel silenzio delle mura di casa, accolta da voci famigliari discrete, sussurri e luci soffuse, e fu adagiata immediatamente sulla mia pancia, da dove grazie al suo istinto e ai suoi sensi iniziò a dirigersi verso il seno per succhiare il primo colostro. Come mamma mi sentii trasformata, poiché con le mie sole forze finalmente ero riuscita a fare andare le cose come sentivo ed ero convinta che dovessero andare bene, malgrado i piccoli e grandi ostacoli incontrati. Grazie all’accompagnamento delle levatrici, ero riuscita a dare alla luce mia figlia, con la quale da subito mi sentii realizzata, in simbiosi, tanto da decidere all’istante che sarebbe stata lei a scegliere il momento più opportuno per staccarsi dal cordone ombelicale (lotus birth). Nei suoi confronti ho sentito fin da subito una gran fiducia nell’affrontare la vita, cosa che con gli altri figli ho coltivato solo negli anni. Quale medico, i diversi parti dei miei tre figli mi hanno sicuramente arricchita, mi hanno aperto nuove prospettive che gli studi non mi avevano mostrato e che però la scienza sta sempre più dimostrando e che corrispondono a ciò che ho vissuto e sentito. Quale donna, mi hanno permesso di diventare consapevole del modo più facile, bello e naturale di venire al mondo, riconducibile in fondo al buon senso, e mi hanno trasformata, permettendomi di sentire profondamente la cosa più giusta da fare, senza lasciarmi condizionare dalla figura del medico o dalla cultura. Ho ritrovato quella fiducia in me stessa e nella grandezza della natura, che oggi è stata sostituita dalla tecnologia. Quale mamma, queste esperienze mi hanno permesso di diventare consapevole del grande potenziale dei neonati, di come coltivare un profondo rispetto nei loro confronti e instaurare dei rapporti straordinari con i miei figli.

Quale moglie... chiedete a mio marito."

Federica Tosi Bianda

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