
I bambini li guardano venire come fossero un’apparizione. Li ascoltano in silenzio, composti sulla sedia; allungano una mano per toccarli, ancora circospetti. Poi prendono coraggio. Al diavolo il sushi o il pollo con le mandorle: sgusciano da fianco del tavolo, iniziano a seguirli mentre tornano al banco e da quel momento in poi è un via vai.
Gli adulti invece restano fermi al proprio posto, però sfilano il telefonino dalla giacca. Troppo tardi: il cameriere-robot è più veloce, ha già cominciato a chiacchierare e offrire i piatti che porta sul vassoio. Non resta che immortalarlo oramai che ha finito, in un video breve per gli amici, mentre con voce metallica chiede congedo e una carezza sulla testa: segno che il cliente è soddisfatto. Gli occhi blu lampeggiano, espressivi a loro modo; lui si gira su se stesso e rientra alla base, pronto a consegnare la successiva ordinazione con stuolo, stavolta, di pargoli al seguito.
Tre "donne", coi grembiuli rossi e fucsia e petto prosperoso; un uomo, o così pare, anche se le sembianze sono più quelle di un carrello ambulante che si muove da solo per la sala. Anzi tre, intercomunicanti, per 150 posti almeno a sedere al Sushi Komachi di Cavallasca, pochi chilometri del confine: fra i primi ristoranti in Italia a reclutare robot camerieri, dopo Rapallo, la Sardegna e poco altro. Di solito è cosa che si vede in Giappone e nell’Estremo Oriente, dove con la rivoluzione digitale si è in teoria più avanti; e non è un caso se la proprietaria è proprio da lì che arriva, anche se dopo 22 anni nella vicina Penisola si sente così italiana da aver rinunciato alla cittadinanza cinese. Di nome fa Michela, di cognome Hu e con il papà, che a stento sa dire “vino rosso” ma ne ha di ottimi sulla carta, a 27 anni ha aperto finalmente il suo ristorante, lo scorso maggio, doppia cucina cinese e giapponese. Tutti i giorni, pranzo e cena, prezzo fisso: nulla avrebbe forse di diverso dalle decine d’altri "all-you-can-eat" che spuntano ovunque a fare concorrenza, non fosse per quell’attrazione che rischia di fare un’enorme differenza.
Un’operazione di marketing, ma anche una scelta mezza obbligata, per un esercizio che a pieno regime avrebbe bisogno di molto personale e «fatichiamo a trovarne», confida Michela, lungimirante nella felpa grigia e i jeans con cui dimostra di non badare all’apparenza. Qualche decina di migliaia di euro di investimento, più i sensori sul soffitto che guidano i suoi quattro robot lungo percorsi prefissati. Non c’è trucco, non c’è inganno e neanche magia; solo tecnologia e neppure troppo sofisticata, soft-ware e ideogrammi da convertire in italiano - dici poco - ed è fatta. Voilà, il futuro è tutto qui.
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