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Le pene dei politici di carta
Filippo Suessli
3 anni fa
Affiggendo i loro volti in ogni angolo del cantone, i politici si espongono anche ai vandalismi. Ma è davvero un male per la campagna? Ne abbiamo parlato con un esperto

Faccioni sorridenti, seri o preoccupati. Slogan ben fatti o, più spesso, banali. Affissioni legali e abusive. Sono settimane che li vediamo a ogni angolo. Piccoli e grandi politici si presentano ai loro possibili elettori con uno dei metodi più vecchi del mondo: il manifesto elettorale. Per le comunali, poi, il panorama è anche più colorato. Perché ai soliti noti si affiancano i braccianti della politica di milizia che per farsi fotografare dalla cinta in su devono tirare fuori la giacca del matrimonio che non si chiude più da almeno tre legislature. Ma, insomma, Parigi val bene una messa e tirar dentro la pancia è un prezzo tutto sommato modesto per un rebranding. Poi d’improvviso un pene. Sì, un pene: basta un indelebile in mano a qualcuno con troppo tempo libero e ad agghindare quel sorriso studiato infinite sere davanti allo specchio spunta un pene. O delle orecchie. O i più classici dei baffetti. Tutto l’armamentario del vandalo da cartellone.

Da Hitler a Merlani... a Brian May
In questi giorni sui social abbondano le denunce pubbliche da parte dei candidati. Altre sono arrivate direttamente in redazione, segnalate per essere denunciate pubblicamente. Quelle che abbiamo raccolte non sono certamente esaustive, ma rendono l’idea. Il presidente dell’Udc Piero Marchesi sembra particolarmente gettonato, o forse sono i malcantonesi a essere particolarmente goliardici: sulla sua pagina Facebook lo si può vedere tramutato in Adolf Hitler, in indiano e con un membro (e un commento omofobo) accostato al viso. Marchesi ha deciso di lasciarli lì, così che di fronte al suo volto deturpato “tutti i cittadini del nuovo Comune Tresa possano vedere che ci sono dei concittadini che, in preda all’invidia e all’intolleranza (quella che millantano a ogni angolo), sono incapaci di accettare le idee altrui”. Poi c’è il candidato Ppd di Biasca Roberto Cefis, che ha visto il suo volto coperto da quello del medico cantonale Giorgio Merlani. Un altro Ppd, Pietro Ghisletta, si è trovato orecchie e baffi da “uregiatt” sul manifesto. Mentre ai candidati di Generazione Giovani di Mendrisio è stata regalata la didascalia “Tutte balle”. Un po’ inutile a dir la verità, perché ad attirare l’attenzione resta comunque l’omonimia di un candidato con il chitarrista dei Queen Brian May.

“Il manifesto è un luogo di scontro”
Ma perché i manifesti elettorali sono così presi di mira? “Credo dipenda proprio dal tipo di medium”, ci risponde il sociologo dell’immagine Gianni Haver. Il professore dell’Università di Losanna si è spesso occupato del tema e fa parte anche della commissione vodese che pone i limiti alle affissioni sullo spazio pubblico. “Al contrario di altri tipi di comunicazione, il manifesto è una presenza non richiesta. Quando sono per strada incontro questo messaggio che non ho sollecitato”. Insomma, in parole povere, il politico può offendersi se lo imbratto, ma ha cominciato lui: intromettendosi nella mia vita. “C’è un’intrusione in uno spazio collettivo di questi messaggi che sono messaggi a senso unico”, continua Haver. Il politico ci grida il suo slogan e noi non possiamo rispondergli. “Questa interazione è in qualche modo bloccata, ma fa parte del gioco. È la logica stessa del dibattito politico, è richiesto uno scambio e anche uno scontro. Quindi il manifesto diventa luogo di questo scontro”.

Un linguaggio di emozioni
Ma perché sui manifesti appaiono peni, svastiche, baffetti? Secondo il sociologo la dinamica è piuttosto chiara. Il manifesto, a differenza di un volantino, un dibattito, un articolo di giornale, è una sintesi. “Sul manifesto vi è un’immagine e uno slogan. L’idea si concentra e si cristallizza”, spiega Haver. E, citando il biologo e sociologo Sergei Chakhotin, ricorda come la propaganda sollecita non la ragione bensì le emozioni e così il modo di combatterla è sullo stesso livello: quello delle emozioni e dell’immediatezza. Così nella Germania degli anni 30 c’era chi cambiava “Heil Hitler”, salve/evviva Hitler, in “Heilt Hitler”, guarite/curate Hitler. Insomma, il minimo sforzo il massimo risultato. Così, ci racconta Haver, in Romandia qualcuno ha per un periodo attaccato dei nasi da clown a tutti i politici sui cartelloni: “Un sistema semplicissimo ma efficace”.

Un invito ai vandali
Infine, vi è il fatto che il manifesto chieda quasi di essere vandalizzato. “Da che mondo e mondo il manifesto viene vandalizzato. Perché è allo stesso tempo deturpatore dello spazio urbano e oggetto ideale di deturpazione”, spiega il sociologo. “Il supporto di per sé invita. Sto stracciando o pasticciando un oggetto che invade lo spazio collettivo”. Infine, il fatto che i manifesti siano prettamente temporanei ne abbassa il valore percepito, insomma non è come spaccare un lampione. “È l’oggetto per permettersi una piccola illegalità. È la trasgressione che abbiamo fatto un po’ tutti da ragazzini, scrivendo cacca sulla pubblicità della cioccolata”.

Ma a chi fa comodo il vandalismo?
Se ne parli bene, se ne parli male, l’importante è che se ne parli. Un luogo comune che in questo discorso, però, trova spazio. Infatti sono i politici stessi a denunciare pubblicamente lo stupro del loro volto e, come nel caso di Marchesi, che scelgono di non sostituire il cartellone perché l’abuso ne potenzia il messaggio. “Alcuni manifesti sono proprio concepiti in questo modo. Pensiamo a quelli che giocano sul doppio senso in modo così spinto da sollecitare lo scandalo. Lo scandalo rende molto più visibile il messaggio elettorale”. È il caso di alcuni famosi manifesti Udc che spingendo i doppi sensi razzisti fino al limite hanno ottenuto molta più risonanza, come nel caso delle pecore nere. Oppure quelli delle campagne contro l’Aids della Confederazione, che violando alcuni tabù ottengono una crescita esponenziale della loro visibilità.

Il caso Freysinger
Gianni Haver è autore anche di un articolo accademico su un manifesto particolare: quello di Oskar Freysinger per le elezioni federali del 2011. “Freysinger aveva stampato due versioni del suo manifesto, uno normale e uno su cui lui stesso aveva stampato degli insulti per attirare l’attenzione”. Una campagna originale che aveva avuto successo. Invece di Oskar a Berne, sulla versione modificata vi era scritto “Oskar à pendre”, da impiccare. Vicino al volto la scritta “débile”, stupido/ritardato. Degli occhiali sugli occhi e un coltello tra i denti. “Non so se Freysinger l’abbia fatto intenzionalmente, ma il coltello fra i denti fa parte dell’iconografia anticomunista”.

Giocare d’anticipo
La mossa di Freysinger aveva anche un altro scopo. Intervistato dai media il politico aveva spiegato: “I manifesti Udc sono vandalizzati sistematicamente, hanno una speranza di vita molto corta. Così li prendo alla sprovvista”. Inoltre, aveva aggiunto, i suoi cartelloni erano spesso pasticciati con simboli ben peggiori, croci uncinate e, di nuovo, baffetti da Führer. Insomma, autovandalizzando i propri cartelloni ha raggiunto l’apoteosi della potenza comunicativa: “Controllare anche la vandalizzazione dei propri manifesti è il massimo. A quel punto abbiamo anche il controllo completo della comunicazione”.

Ha ancora senso il manifesto?
“Probabilmente non abbiamo risposta”, risponde Haver. Non si può misurare quale parte di una campagna elettorale abbia più influsso sul risultato finale, ci spiega. “Il manifesto, comunque, è l’oggetto tradizionale della comunicazione politica. Alcuni manifesti rimangono nell’immaginario. Quando si vuole rappresentare la politica, il manifesto è l’oggetto ideale”. Sicuramente se ne fa meno uso: “Una volta rappresentava il 60-70% dei costi di un partito, oggi forse un 10-20%, ma resta l’icona ufficiale”. La capacità di sintesi del manifesto è difficilmente battibile, tanto che per il web i candidati scelgono dei modelli molto simili a quelli del cartellone e, nello stesso modo, grazie ai contenuti sponsorizzati, ce lo troviamo davanti senza volerlo: “Non è più un manifesto di carta per strada, ma comunque invade il nostro spazio pubblico”, conferma Haver.

Merlani promosso
Tra i vandalismi che abbiamo elencato c’è un vincitore? Probabilmente il volto di Giorgio Merlani sul candidato Ppd. Il sociologo ne legge alcuni tratti interessanti: “È semplice ed efficace, perché una piccola modifica cambia il senso del messaggio. È una modifica molto visibile ed è una modifica dei giorni d’oggi: senza le stampanti digitali negli anni 60 una modifica simile non sarebbe stata possibile”. Infine è un vandalismo che attira più l’attenzione perché si lega all’attualità. “Anche per Freysinger era così: la scritta ‘débile’ è stata scelta perché si legava a uno scandalo del momento, all’epoca era un tema scottante. Ma oggi quel doppio senso lo abbiamo perso, oggi significa solo ‘débile’. Spesso sui manifesti si trovano elementi molto contestuali”.

Il 10% di vandalismi è previsto
Ma se la sociologia studia manifesti e relativi vandalismi come un fenomeno della società, c’è chi li deve contabilizzare nelle fatture. “Quando un partito o un candidato conferma una campagna di affissione, chiediamo un supplemento di circa il 10% di manifesti in più per eventuali atti vandalici”, ci spiega Renato Belotti, capo regione sud della società di affissioni APG/SGA. “Quando ci segnalano un manifesto rovinato nell’arco di 24/48 ore lo sostituiamo. Se un nostro collaboratore se ne accorge e lo ha in auto, lo fa immediatamente”. Belotti ci spiega che quest’anno il fenomeno non sembra particolarmente intenso: “Lo scorso anno quando erano inizialmente previste le elezioni, personalmente ho percepito qualche vandalismo in più. Quest’anno non mi sembra, per fortuna”. Dal punto di vista del professionista dei manifesti, però, è la vita politica in generale a essere meno combattuta di un tempo. “Abbiamo dei cartelli su suolo privato. Molti anni fa capitava che il privato mi chiedesse di cambiare un manifesto, perché quel candidato proprio non lo voleva sul suo terreno. Sono anni che non mi capita più”.

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