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La parità è un’utopia?
Foto CdT/Gabriele Putzu
Foto CdT/Gabriele Putzu
Dopo lo storico sciopero del 2019 l’onda viola è tornata in piazza. Il coronavirus ha accentuato le disparità di genere e per questo le donne chiedono rispetto

Il 14 giugno 2019 scendevano in piazza mezzo milione di persone per alzare la voce contro un sistema che vede ancora disparità e discriminazioni nei confronti delle donne. Un’onda viola che si è trovata sulle strade a quasi trent’anni dal primo sciopero femminile storico per la Svizzera, quello del 1991.

La data non era stata scelta per caso, il 14 giugno di dieci anni prima – nel 1981 – l’elettorato elvetico aveva approvato un nuovo articolo costituzionale sulla parità dei sessi. La disposizione recita così: “Uomo e donna hanno uguali diritti. La legge ne assicura l’uguaglianza di diritto e di fatto, in particolare per quanto concerne la famiglia, l’istruzione e il lavoro. Uomo e donna hanno diritto a un salario uguale per un lavoro di uguale valore”. Ma, non solo. Lo sciopero del 1991 si ricollegava al ventesimo anniversario dall’introduzione del suffragio femminile a livello federale (1971), un obiettivo raggiunto molto tardi rispetto ad altri Paesi europei e nel mondo.

Nonostante le conquiste di quei decenni, le lotte non sono terminate con gli scioperi, anzi. A un anno dalla manifestazione femminista donne e uomini, nonostante il Covid, sono tornati in piazza – in forma completamente diversa dal 2019 – per rivendicare uguaglianza, parità e rispetto. Tutte questioni che non solo non si sono risolte ma che si sono amplificate durante il periodo emergenziale, mettendo in luce ancora di più quanto l’universo femminile paghi la disparità. “Torniamo in piazza per riprendere il discorso che è il medesimo di quello del 1991 perché la parità è tutt’ora incompiuta” spiega Françoise della rete “Nateil14giugno”. Il collettivo “Io lotto ogni giorno”, invece, ha deciso di presentare davanti al Governo una ‘fattura’ per il lavoro domestico e di cura svolto dalle donne che non viene remunerato e tanto meno riconosciuto. “Abbiamo deciso di fare uno sciopero per mettere in luce quanto questo lavoro impegni sia in termini di tempo, che in termini di valore” spiega Alessia.

Una parità che effettivamente è tutt’altro che raggiunta. Secondo l’esame periodico universale dei diritti umani in Svizzera (Epu) il Paese si colloca in posizioni intermedie in fatto di parità salariale e, addirittura agli ultimi posti per la quota di donne tra i quadri o i membri dei consigli di amministrazione. A confermarlo è Gabriela Giuria, responsabile sviluppo progetti della Fondazione Diritti Umani. “In Svizzera c’è tanto da fare per la parità, a un anno dallo sciopero tantissime donne si sono attivate per i propri diritti e c’è più sensibilità. In una società dove si considera che la capacità di consumo sia un diritto e un privilegio non si bada più ai diritti fondamentali collegati al benessere collettivo soprattutto delle categorie più vulnerabili. Questa situazione di pseudo benessere economico ci rende meno vigili sullo stato di salute dei diritti umani”.

Gabriela Giuria, Fondazione Diritti Umani
Gabriela Giuria, Fondazione Diritti Umani

In Ticino, infatti, il 60% delle persone sottopagate sono donne. Secondo le “Cifre della parità” le donne nel settore privato risultano avere salari più bassi del 15,8% (850 franchi in meno) rispetto agli uomini, nell’ambito pubblico – dove i salari sono più elevati – del 12,5% (930 franchi in meno). Di questi gaps salariali, nel settore privato solo il 53% è spiegato da caratteristiche personali e professionali, nel pubblico, invece il 72%. “Il lavoro delle donne è sempre stato considerato di minor valore e lo stipendio risulta accessorio, come se una donna andasse a lavorare per togliersi i propri sfizi” asserisce Gabriela. Questa idea, ancorata nell’immaginario collettivo dagli anni ’70 non è ancora stata debellata. Infatti, tante persone ancora pensano che “le donne non sono fatte per lavorare ma per occuparsi della famiglia”.

“Lo sciopero come forma di manifestazione è anch’esso uno strumento valido per esprimere il proprio impegno. Per il cambiamento di cultura non basta l’approvazione di una legge ma c’è un processo di assimilazione che deve coinvolgere tutta la collettività” spiega Giuria. “Le istituzioni arrivano laddove la società civile è arrivata prima, non ci sono tanti esempi nel corso della storia dove un governo abbia deciso di dare qualcosa se non è prima stato chiesto dalla piazza e/o dalle categorie coinvolte. I tempi della politica sono lunghi e per questo è necessario avere una società civile attiva e vigile”. Dal punto di vista generale, aggiunge “in una società sana e democratica è giusto che ci sia lo spazio per tutte le istanze partecipative di dissenso”.

Insomma, l’immaginario collettivo associato alle donne da sempre è ciò che ha determinato il loro ruolo nella società. Dalle pubblicità, all’istruzione, fino a un certo tipo di comunicazione. Per quanto riguarda, per esempio la maternità, “il corpo della donna continua a essere ostaggio ancora oggi di alcune comunità, ma ciò non avviene per l’uomo” spiega Gabriela.

Per questo, una delle molteplici rivendicazioni sollevate dai movimenti femministi non è solo lottare per una generica parità, ma per una società che garantisca il diritto di ogni persona: uomo o donna che sia. Di questo ne è convinta Anita Testa-Mader, ricercatrice psicosociale e militante storica dei movimenti femministi degli anni ’70.

“In Ticino, come in altre regioni, il femminismo si è sviluppato sull’onda del movimento del ’68” spiega. Ma “la situazione sociale economica e politica di oggi è molto diversa da quella degli anni Settanta. Da un lato si sono fatti passi avanti, dall’altro bisogna ancora lottare per molti diritti che sembravano acquisiti, come quello della parità salariale” aggiunge Anita.

Anita Testa-Mader, ricercatrice psicosociale e militante dei movimenti femministi
Anita Testa-Mader, ricercatrice psicosociale e militante dei movimenti femministi

Negli ultimi anni, dopo un apparente silenzio dei movimenti, è tornato – seppur in forma diversa – il femminismo e molte giovani donne continuano a scendere in piazza. Dai movimenti come “Non una di meno”, a quelli del “MeToo” fino ad arrivare in Ticino. Tra i vari esempi, “IoL’8OgniGiorno” e la rete “NateIl14Giugno”. Questo per Anita è “un importante cambiamento positivo e significa dare valenza collettiva a situazioni che prima erano considerate un tabù e che dovevano essere affrontate in solitudine, come le molestie sessuali”.

Una lotta, dunque, incentrata per arrivare a una società femminista che è, poi, secondo Gabriela Giuria, una “società umanista, capace di dare il giusto valore a tutte le persone”. Maschilismo e femminismo, termini che ancora oggi destano terrore, non sono di uguale valore. “Il maschilismo lavora sull’esclusione e sulla violenza, mentre il femminismo lavora sulla comprensione e l’inclusione”. E conclude: “Non bisogna collegare il fatto di essere femministi al fatto di essere donne”.

Il coronavirus ha sicuramente messo in luce tanti aspetti che i movimenti femministi rivendicano da anni. Dal riconoscimento del lavoro di cura, alle disparità nel settore economico, alla gestione famigliare a carico di una donna. E, seppur tanto amato da molti, il telelavoro ha sicuramente accenutato e ampliato il carico di lavoro delle donne. E Chiara Landi, del movimento “NateIl14Giugno” l’ha spiegato senza mezzi termini: “La pandemia ha dimostrato in modo dirompente le contraddizioni di questo sistema, ineguale, discriminatorio che si regge sullo sfruttamento di chi non ha tutele”. E per questo motivo, spiega Alessia del collettivo “Io Lotto Ogni Giorno”, “le nostre rivendicazioni restano tutte di attualità, anzi in ambito del Coronavirus rimangono ancora più urgenti”. Tra questi, il tema della violenza domestica ma anche il tema della valorizzazione di tutti quei settori femminilizzati del mondo del lavoro “che sono, come abbiamo potuto vedere, i settori veramente essenziali”.

L’onda viola non si ferma qui. Nonostate i primi passi dopo lo sciopero del 2019, in Svizzera e in Ticino c’è ancora molto lavoro da fare: da una maggiore presenza di figure femminili nella politica, al “gender gap”. Françoise della rete nata in occasione dello sciopero conclude: “Le rivendicazioni delle donne devono tornare non solo ogni anno, ma ogni giorno”.

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