Ticino
Gli ospedali ticinesi finiscono su Lancet
Foto CdT/Gabriele Putzu
Foto CdT/Gabriele Putzu
Filippo Suessli
3 anni fa
Lo studio sierologico svolto durante la scorsa primavera tra gli operatori sanitari ticinesi è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista medica

Tra il 16 e il 30 aprile scorsi, quasi 5mila operatori sanitari ticinesi sono stati sottoposti a uno studio sierologico sulla presenza di anticorpi contro il Covid-19. I dati avevano mostrato come il 10% dei professionisti coinvolti fosse entrato in contatto con il Sars-Cov-2, una percentuale pressoché identica a quella della popolazione generale che ha partecipato allo studio Corona Immunitas. I risultati di questo studio, diretto dal professor Alessandro Ceschi e svolto da Eoc, Irb, Humabs Biomed, Istituto di salute pubblica dell’Usi, Clinica Luganese Moncucco, Cardiocentro e Clinica Hildebrand, sono stati pubblicati sulla collezione Regional Health Europe della prestigiosa rivista Lancet.

Misure di protezione

I dati erano già stati parzialmente resi pubblici lo scorso anno, ma lo studio approfondito ha permesso di sottolineare l’importanza delle misure di protezione. “I risultati hanno evidenziato che sebbene vi sia un rischio assoluto di sieroconversione leggermente più elevato per gli operatori sanitari con contatto diretto con il paziente, non esistono delle differenze significative tra le strutture ospedaliere dedicate al trattamento dei pazienti COVID e le strutture non COVID. Questo ci porta a dire che lavorare a contatto diretto con pazienti COVID, applicando le misure di protezione adeguate, non rappresenta un fattore di rischio di per sé”, commenta Alessandro Ceschi. Un risultato definito “incoraggiante”, dal responsabile medico dell’Eoc Paolo Ferrari, intervistato da Radio3i.

A casa meno attenti

Paolo Ferrari sottolinea come sia emerso che i sanitari risultati sieropositivi sono stati soprattutto coloro che “avevano qualcuno a domicilio con un tampone positivo o con sintomi da Covid. Questo cosa vuole dire? Che in ospedale ci si comporta bene, si seguono le misure, mentre quando si torna a domicilio queste misure vengono a mancare o si è meno rigorosi e da qui il rischio di infezione”. Lo studio mostra infatti che i collaboratori con esposizione domestica hanno mostrato una sieroprevalenza del 19%, contro l’8% di coloro che a casa non hanno avuto casi della malattia.

Focolai negli ospedali

E ora, durante la seconda ondata, “il virus è talmente diffuso nella popolazione che abbiamo avuto anche dei focolai all’interno degli ospedali, che non avevamo osservato nella prima fase”, spiega Ferrari. “Erano focolai che non partivano all’interno dell’ospedale, ma venivano importati dai visitatori o dai collaboratori, che lo portavano dall’esterno della struttura ospedaliera. Chiaramente lavorando per otto ore a contatto con i colleghi e con i pazienti, poi il rischio di contagio aumenta”.

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