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Calzascia, Baggi, Tajana - Sindaca o avvocata: suona così strano?
Foto Shutterstock
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Redazione
4 anni fa

Questa quarantena, quest’essere relegate in casa assistendo all’inarrestabile diminuzione degli appuntamenti in agenda, ci ha dato modo di pensare parecchio. Un tema che ha richiamato la nostra attenzione è stato la declinazione al femminile di alcuni termini che stanno a indicare nomi di carica o di professione, come è il caso di «sindaca» o «avvocata».

Si tratta di una tra le tematiche in ambito linguistico oggi più discusse. Da una parte vi sono i favorevoli ad un cambiamento di rotta in contrapposizione ad una cultura e ad una mentalità ancora troppo maschiliste; dall’altra invece vi sono gli scettici, i quali sostengono che l’usus linguistico di non declinare determinati termini al femminile sia troppo consolidato nelle abitudini comuni e dunque intoccabile. Ma se per assurdo da domani dovessimo imperativamente adottare questa trasformazione, sarebbe così strano sentire alcune parole declinate al femminile? E davvero, come sostengono alcuni, ciò andrebbe contro le regole grammaticali?

Prendiamo spunto dallo scambio fra un lettore del portale online della Treccani e la linguista e docente universitaria Cecilia Robustelli. Essenzialmente il primo sostiene che non sia possibile declinare alcuni termini al femminile poiché non sarebbe consentito dalle regole della grammatica. La linguista ribatte però facendo l’esempio della «flessione» caratteristica del genere grammaticale dei nomi che si riferiscono a esseri umani. L’esperta sottolinea che questa riluttanza alla declinazione di termini non è che una questione di scelte personali e non viola quindi le rispettabilissime leggi della grammatica italiana. Ma allora, perché tutta questa reticenza?!

Approfondendo il tema, siamo rimaste stupite nello scoprire che le prime a sentirsi a disagio davanti a questo cambio linguistico, siamo proprio noi donne (eh, già). Si pensi ad esempio a Letizia Moratti che, al momento dell’entrata in carica come sindaca di Milano, affermò «chiamatemi signor sindaco» . Eppure, la stessa Accademia della Crusca sottolinea l’importanza dell’ «uso reale» delle parole nel condizionare la grammatica. È compito dunque della comunità dei parlanti attuare questo cambiamento, che avrebbe maggior influenza se sostenuto innanzitutto dalle istituzioni e dall’amministrazione pubblica, oltre che dalle donne stesse che svolgono professioni o ricoprono ruoli considerati tradizionalmente maschili. Questa trasformazione linguistica andrebbe nella direzione di un cambiamento sociale, rafforzando la lotta per le pari opportunità (...e senza urtare le leggi linguistiche perdipiù!).

Pensiamo al messaggio che potrebbe trasmettere una donna che decide di mantenere al maschile la versione del nome della propria professione. Provocatoriamente, potrebbe quasi sembrare che questa lo faccia per non intaccare usi grammaticali consolidati a causa di un capriccio, scusandosi di fronte alla società che già prestabiliva ruoli di genere e conseguenti cariche professionali. Ma non si tratta di un capriccio! Una svolta linguistica in questo senso potrebbe infatti incentivare la presenza di donne in determinate cariche pubbliche e/o posizioni di prestigio, sia in ambito professionale che politico.

Con un utilizzo appropriato della lingua italiana, si potrebbe contribuire fortemente a vincere una grande battaglia, quella degli stereotipi di genere. Proprio perché «quando parliamo e scriviamo, l’uso che facciamo del linguaggio riflette e influenza il nostro modo di pensare e di agire» .

Caterina Calzascia, Valérie Baggi e Selene Tajana, Membri del comitato di Generazione Giovani PPD Ticino

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