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Antonio Caggiano - L’incompetenza che costa caro all’economia ticinese già sotto pressione a causa del Covid-19
Redazione
3 anni fa

Direttive sbagliate, approssimazione e poca comprensione della realtà economica durante la pandemia: la Commissione paritetica cantonale edilizia e rami affini (CPC), organo che dovrebbe sostenere le aziende ed i lavoratori, ostacola al contrario le attvità economiche sul territorio.

Le ripercussioni negative che sta avendo questa pandemia, non solo sul sistema sanitario ma anche su quello economico, sono sotto gli occhi di tutti. Cio nonostante, gli imprenditori e le PMI ticinesi non mollano e si danno da fare: investono nei sistemi di protezione, adottano le misure anticovid, si impegnano e continuano ad offrire i servizi e si adattano alla situazione, cercando di sopravvivere. In cambio, chiedono un pò di sostegno, comprensione e flessibilità da parte delle istituzioni, o - perlomeno - competenza nell’applicare regolamenti e norme già esistenti.

Non sembra essere il caso con la CPC. La nostra impresa edile, come tutti gli altri e giustamente, ha adottato le misure di sicurezza anticovid. Queste prevedono ovviamente che il numero dei lavoratori presenti in un cantiere sia limitato, per il rispetto delle distanze sociali. Va da se che questa misura comporta automaticamente un rallentamento dell’esecuzione dei lavori. Diventa pertanto evidente che, per cercare di rispettare le tempistiche, diventi necessario avere a disposizione più giorni lavoratvi e pertanto lavorare anche al sabato. Questo naturalmente sempre nel rispetto dei lavoratori, pagando quindi i supplementari salariali previsti dal CCL di riferimento. Per questi motivi, la ditta alla quale abbiamo dato mandato per le opere da gessatore, compila correttamente il formulario di richiesta di lavoro a regime speciale per lavorare il sabato e lo inoltra il venerdì precedente, alle 11 del mattino. Il Contratto collettivo di lavoro per gessatori, stuccatori, montatori a secco, plafonatori e intonacatori (CCL) valevole per il Cantone Ticino dal 1° gennaio 2017 al 31 dicembre 2019 e prorogato dal Consiglio di Stato con carattere obbligatorio fino al 30 giugno 2021, prevede infatti all’art. 22 cpv 6, che le richieste di autorizzazione “dovranno pervenire al segretariato entro le 12.00 del venerdì precedente il lavoro”. Sulla base di quanto descritto, viste le condizioni rispettate e la motivazione, l’autorizzazione dovrebbe venire concessa. La CPC invece non solo non concede l’autorizzazione, ma motiva il rifiuto dicendo che la stessa è giunta al di fuori dei termini imperativi di inoltro. Visto quanto sopra, chiediamo di rivalutare la decisione, in quanto ci sembra molto strano che il motivo del rifiuto sia quello addotto. Anche a questa seconda richiesta, la decisione non cambia. Come ultima risorsa, provo a contattare direttamente e telefonicamente il Direttore della CPC, signor Capelli, chiedendogli di rivedere questa decisione e cercando di fargli capire l’importanza di permettere alle ditte di lavorare. Niente da fare, Capelli sostiene ancora che la richiesta non è giunta in tempo. Vado allora ad approfondire la questione e vedo che le direttive emanate dalla CPC al riguardo sul formulario di richiesta divergono da quanto scritto nel CCL! Queste indicano infatti, a questo punto arbitrariamente, che le richieste devono essere inviate “24 ore prima dell’inizio dei lavori”. Giusto rispettare le regole, giusto rispettare i termini, e giusto sostenere l’economia. Diventa però inaccettabile che una CPC, che dovrebbe essere un organo competente in materia, si permetta di implementare termini imperativi che divergono dal CCL, e sulla base di questi rifiuti l’autorizzazione a delle ditte che, nel rispetto di tutte le regole, chiedono solo di poter lavorare! Questo è intralciare ed ostacolare deliberatamente e senza valido motivo le imprese che a fatica continuano ad operare durante la pandemia, garantendo posti di lavoro e permettendo all’economia di non collassare. Qui non si sta parlando di non pagare i supplementi, di fare lavorare più ore, di non rispettare la sicurezza. Qui si sta parlando di rifiutare il lavoro per un cavillo tempistico, che tra l’altro non è nemmeno giustificato in quanto il CCL dice altro! Vogliamo aprire gli occhi e sostenere le aziende che ancora vogliono e riescono a lavorare sul territorio o vogliamo nasconderci dietro ad un orologio con un timer? Le disposizioni e i termini ci devono essere e ci mancherebbe altro. In tempi normali si può anche capire il motivo di mettere dei termini temporali, altrimenti sarebbe una giungla. Ma in tempo di pandemia, quando un’azienda chiede di poter lavorare, e quando tutte le condizioni sono rispettate, è possibile che la motivazione di un rifiuto della CPC sia “non è arrivata in tempo la richiesta”? (e la richiesta è arrivata alle 11 del mattino, nel rispetto del CCL, e non alle 11 di sera!). Questo semplicemente non è accettabile.

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