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Quarant’anni senza Bob Marley
Foto Shutterstock
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Redazione
3 anni fa
Morì la mattina dell’ 11 maggio 1981 al Cedar of Lebanon Hospital di Miami. Icona di pace, morì a 36 anni, ancora oggi il suo reggae contamina

È complicato riassumere in pochi la vita di Bob Marley, perché la storia biografica, si fonde con quella di un popolo, fra religione musica e il mito che avvolge la figura di Robert Nesta Marley, le cui spoglie riposano nel mausoleo eretto nel villaggio natale di Nine Mile, un paesino immerso nella foresta giamaicana. È qui che il 6 febbraio 1945, nasce Robert Nesta, figlio di un matrimonio complicato fra Norval Marley, un capitano di marina di origini britanniche bianco e Cedella Booker, una giovane giamaicana nera. La relazione suscitò scandalo e prima della nascita di Robert, il padre abbandonò la madre. È un fatto importante, perché le condizioni di miseria della famiglia, che spingono la madre a Trenchtown un sobborgo degradato della capitale, determinano la vita di Bob Marley, ma al tempo stesso gli permettono di fare degli incontri fondamentali per la sua carriera artistica: quello con Bunny Wailer, che lo introduce al mondo della musica, e con Peter Tosh. Nel 1964 i tre formano i The Wailers e sfornano un primo singolo di successo: Simmer Down, una canzone ska che ha ancora poco a che fare con il reggae, per il semplice fatto che il genere ancora non esisteva.

Bisogna sapere che in Giamaica all’epoca la gente ballava per strada al ritmo dei sound system, impianti audio montati sui carri che diffondevano i brani del momento. Nel 1966, durante un’estate particolarmente calda, le proteste pubbliche spinsero i musicisti a rallentare il ritmo delle canzoni. Dapprima nacque il rocksteady, che a sua volta diede vita al reggae. Siamo nel 1968 e all’epoca Bob Marley si è già convertito alla religione rastafari e aveva conosciuto la moglie Rita, che lo accompagnerà come corista dei Wailers. Il gruppo si scioglie nel ‘74 non prima di aver pubblicato 8 album che riscuotono un successo globale, alimentato dalla diaspora caraibica che porta le sonorità giamaicane in giro per il mondo. In quei dischi troviamo canzoni entrate nella storia come “Sun is shining”, “Stir it up”, “Get up stand up” e “I shot the sheriff” per citarne alcuni.

Congedatosi da Peter Tosh e da Bunny Wailer, Bob Marley continua la sua carriera scalando le classifiche internazionali. Nel ’74 esce No woman no cry, nel ’77 dopo il trasferimento a Londra viene pubblicato Exodus. In quell’anno, Marley riceve la diagnosi di un melanoma che stava crescendo sotto l’unghia dell’alluce. Sarebbe forse bastata un’amputazione per evitare la scomparsa prematura dell’artista, ma per motivi religiosi Marley rinuncia all’intervento. Perderà la vita nel 1981 in un ospedale di Miami. Dalla diagnosi, Marley non smette di pubblicare successi e riempire gli stadi di tutto il mondo, entrando con il suo messaggio universale nell’olimpo della musica del XX secolo. Ricevette i funerali di stato in Giamaica e venne sepolto accanto alla sua casa natale a Nine Mile, insieme alla sua chitarra, una Gibson Les Paul, al suo pallone da calcio, a una pianta di marijuana, a un anello donatagli dal principe etiope Asfa Wossen e a una Bibbia.

La sua eredità musicale è stata raccolta da alcuni dei suoi 11 figli, i più noti sono Ziggy, Damian, Ki-Many e Julian e ancora più numerosi sono gli artisti che si sono fatti ispirare dalla musica di Bob Marley.

Intervista a Jacky Marti

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